La storia sembra sempre avvenire tutta d’un pezzo: nel giro di pochi giorni o anni scoppiano più guerre, hanno successo più rivoluzioni e crollano più certezze che non nei tempi precedenti. Chiunque sia appassionato di informazione politica, dai giornali ai lavori storiografici, conosce questo fenomeno: non è solo materiale da profeti della grande storia. Le causalità e le dinamiche che animano la società e la politica sono perlopiù nascoste, ma spingono con forza per farsi vedere. Come i gas di un vulcano silenzioso emergono tutte insieme, esplosivamente, sfruttando ogni crepa e giuntura attraverso cui insinuarsi.
Eccezionalmente le crepe non sono lì per caso, ma sono state trivellate appositamente – fanno le veci degli sfiatatoi. Ecco cosa sta accadendo in questi giorni, ricchi di notizie internazionali significative. Le consuetudini e regole costituzionali delle macchine statali sono pensate come canali in cui far correre in maniera prevedibile e ordinata il conflitto politico. Dicembre è il mese dei bilanci, e quindi dei litigi tra esecutivi e legislativi, tra maggioranze deboli e minoranze forti. Nessuno dei mille problemi da risolvere in Francia, Corea del Sud e Russia può essere accantonato, e le debite risoluzioni devono essere programmate ora. Nelle logiche della contabilità di stato si incunea la policrisi del mondo contemporaneo – anglismo indefinito che descrive il sovrapporsi di numerose crisi pressanti, dal clima alla guerra alla finanziarizzazione, in mancanza di visioni, formule e poteri che ci mettano mano. Ecco che a dicembre la policrisi si fa viva in contemporanea e in ogni continente, ricordandoci della sua gravità.
Qui Parigi. Se c’è una istituzione sulla cui esistenza si può scommettere, questa è lo Stato francese. Esso è sopravvissuto a secoli di mutamento sociale, occupazioni, rivoluzioni e ritirate imperiali. La forma contemporanea del patto tra Stato e francesi è basata sull’intervento pubblico nell’economia. Non è troppo diverso da quello italiano, e quindi possiamo raccontarlo con un aneddoto della nostra Prima Repubblica. Nel gennaio 1986 va in scena in Parlamento un dibattito acceso. Con il debito pubblico che cresceva oltre i limiti della ragione matematica, voci dal PCI e dai Radicali denunciavano un modello politico dove partiti e singoli soggetti si guadagnavano il potere distribuendo una fetta della spesa pubblica, che essa corrispondesse ai contenuti della cassa o no. Era la versione irresponsabile e a-strategica del welfare state. Ecco, il Presidente del Consiglio Barnier è stato sfiduciato in Assemblea Nazionale a causa della sua temeraria proposta di tagliare la spesa pubblica: posti di lavoro negli enti locali, tassazioni eccezionali, insomma ogni tabù immaginabile. Come nell’Italia del Pentapartito la compagine governativa si reggeva sulla possibilità delle forze politiche di aggredire il bilancio per le proprie necessità; diversamente dall’Italia di allora, però, il debito francese è acquistato da investitori internazionali sempre più convinti che la Francia sia incapace di disciplina fiscale. La composita sinistra, unita e disunita dal protagonismo di Melenchón, non può accettare alcuna forma di taglio alla spesa pubblica per motivi retorici ed elettorali; il Rassemblement National è votato dalle ex classi operaie, quelle che necessitano di protezione da inflazione e disoccupazione. E allora, piuttosto che aspettare il passaggio del bilancio senza il placet dell’Assemblea, le opposizioni hanno staccato la spina all’esperimento di minoranza Macronista-Repubblicano. Si sa, non c’é sistema strategico meno stabile di uno a tre elementi: i tradimenti sono costanti, non ci sono incentivi alla stabilità. Il risultato è la resa completa dello stato francese alla policrisi contemporanea: invece che vedere una competizione netta tra scelte politiche nette si rimane fermi, incapaci di schiodarsi da un generico “bisogna investire in tutto”. Dai bilanci scottanti si evince che l’interesse comune non è la sommadei piccoli interessi privati – dicembre ci riporta a terra.
Qui Seoul. Il Presidente Yoon Sook Yeol ha ricordato al mondo intero che democrazia e Corea non sono termini facilmente associabili. Come raccontato da Dissipatio recentemente, la Corea del Sud è un stato la cui pace non è nulla più che un armistizio. Paesi permanentemente in stato di guerra con i propri vicini hanno difficoltà a configurarsi democraticamente secondo criteri italiani o europei. La Repubblica di Corea infatti è perpetuamente sotto pressione, intrappolata tra l’incudine nordcoreana e numerosi martelli che battono incessanti – la politica economica del Partito Comunista Cinese, le esercitazioni marittime congiunte di Russia e Cina o di Giappone e Stati Uniti, una proliferazione nucleare e militare allarmante in tutto l’IndoPacifico. Lo Stato sudcoreano, divenuto più liberale e liberista negli ultimi quarant’anni, ha mantenuto un nocciolo duro, chiuso ed elitario, fatto di esercito e forze di sicurezza, in capo all’esecutivo di Seoul, accompagnati dall’aristocrazia dei Chaebols (mega corporazioni completamente fuse con lo Stato, tra cui Samsung o Hyundai). Una parte del modello di Park Chung Hee, dittatore dal 1961 al 1979, non è mai stata smantellata. Questa realtà ha bussato alla porta clamorosamente il 3 dicembre, quando il Presidente ha sostanzialmente tentato un colpo di Stato militare ai danni del Parlamento. Le cause specifiche dell’azione così avventata (come giustificare l’azione agli occhi dei cittadini e del mondo occidentale?) non sono note al pubblico italiano e non lo saranno probabilmente mai. Certamente però l’Assemblea Nazionale sudcoreana, in mano alle opposizioni dopo le elezioni di aprile, è stata un terreno di scontro importante.
Yoon Sook Yeol ha aperto il suo putsch con un discorso televisivo al paese (dal retrogusto sudamericano e colonnellistico) in cui ha accusato le opposizioni di fare uso del gioco parlamentare per paralizzare la Corea e perorare interessi contrari a quello nazionale. Fosse questo un mero casus belli superficiale, pretestuoso o confezionato ad arte, è comunque significativo per il semplice fatto di essere stato scelto. Non è però questo il caso: il Presidente, impopolare persino nel suo partito, ha agito dopo un lunedì turbolento dove l’opposizione ha presentato un bilancio alternativo in Parlamento. A Yun era constestato l’uso personalistico del bilancio, ingrossato per rafforzare gli organi e gli amici della presidenza. Da mesi la politica sudcoreana ruota attorno ad uno scontro istituzionale durissimo tra la sfera di potere del Presidente da una parte e quella dell’Assemblea dall’altra. Il tentativo estremo del Presidente è fallito dinanzi alla compatta reazione di gran parte del Paese, dal pubblico ai partiti, e probabilmente a interventi internazionali. Il calendario della contabilità sudcoreana ha compresso e innescato le lotte di una società in guerra con sé stessa e con il suo doppio. Ne possiamo desumere delle lezioni rilevanti anche nella nostra Penisola. La prima è che i colpi di stato non sono possibili in società articolate e mediaticamente decentrate come quella sudcoreana. Ce lo avevano insegnato tutti i golpe mai partiti in Europa Occidentale negli anni Sessanta e Settanta, ma le numerose notizie dal Sahel e dal Medio Oriente e le mille voci di esperti internautici possono portarci a non discriminare – distinguere – più. La seconda lezione, importantissima, riguarda quell’insieme di retoriche e pratiche definite “democrazia liberale”. Si legge costantemente del suo declino, della sua morte, della sua strumentalità al potere degli Stati Uniti. I teorici del potere puro, dagli estimatori di Schmidt ai Foucaultiani, si sbagliano nel momento in cui chiamano la liberaldemocrazia una sovrastruttura fatta di menzogne. Per i cittadini invece è una aspettativa di moderazione, coinvolgimento e prevedibilità; per non apparire arbitrario il potere deve seguirne le norme e i riti. È stato così in Corea del Sud, e sarebbe certamente così in Europa Occidentale.
Qui Mosca. Abbiamo la cattiva abitudine di leggere solo la sezione delta dei bilanci, ovvero i cambiamenti nella ripartizione delle risorse, perché stanziamenti e tagli raccontano chi saranno i prossimi contenti e scontenti. Al netto della segretezza o del camuffamento di molte attività, il bilancio racconta le priorità e le necessità dello stato e quindi di buona parte della cosa pubblica. Perciò delle spese andrebbe letto tanto il delta quanto le cifre assolute. La politica non è di certo solo spesa; quando però lo diventa, si cristallizza. Nascono comunità e istituzioni che si reggono sulla spesa, e perciò decresce esponenzialmente la flessibilità politica. La Duma ha approvato quasi due settimane fa il bilancio della Federazione Russa, ed ha cristallizzato fermamente la guerra di massa nella futura politica estera dello stato.
Si ritorna curiosamente alle similitudini primo-repubblicane. Attualmente la Russia sta mantenendo in piedi il suo sforzo bellico ed industriale con tecniche keynesiane simili a quelle dei governi del Centrosinistra: aumento delle entrate grazie alla svalutazione della moneta, riduzione dei fondi a servizi ritenuti secondari semplicemente non adattandoli all’inflazione, spinta della disoccupazione al minimo possibile. Sulla carta è un piano ben funzionante, e nel breve periodo i conti tornano. La banca centrale russa pubblica sobriamente le sue stime e la Duma approva; la politica e l’economia però non sono semplice tecnica statistica. Ad esempio, i tassi di interesse innalzati per contenere l’inflazione rendono l’economia dipendente dalla stessa, è interesse dei debitori, e sospingono la statalizzazione dei grandi investimenti. Ancora, i risparmi in rubli delle famiglie sono andati assottigliandosi; o si è parte della macchina bellica, soldato o operaio di specifiche attività, o si perde ogni sicurezza economica. La Russia va così spaccandosi in due, tra un partito trasversale della guerra ed uno che vorrebbe la pace. Innalzatosi l’armistizio in Ucraina il Governo potrà tornare ad ascoltare i bisogni dei Pietroburghesi, degli insegnanti, dei giovanissimi, dei lettori del Kommersant? No, perché la Federazione si sarà pienamente sovietizzata, e come l’URSS non potrà riconvertire la sua spesa sbilanciata a sufficienza. A tutti quelli che si chiedono quale sarà la politica estera del Cremlino nella seconda metà di questo decennio, non servono né istoriosofie putiniane, né eurasismo, né la mitologia dell’imperialismo moscovita. Basterà pensare che nel paese il potere e i fondi saranno in mano ai signori della guerra, e questi troveranno qualcosa da fare.
Per quelli attratti dalla politica e dalle storie invisibili del presente, il mese prima di Natale è una manna dal cielo. I nodi sono costretti a venire al pettine, la politica si spoglia degli orpelli e si fa vedere nei suoi nodi essenziali.
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