La paura che attanaglia gli uomini d’oro, di Federico Maurizio d’Andrea

C’è da chiedersi cosa spinga alcuni tra gli uomini più ricchi del mondo a infischiarsene della propria reputazione e ad appoggiare, con un immediato turnaround, idee, incarnate da un nuovo corso politico, opposte a quelle (almeno) ufficialmente appoggiate fino a un momento prima.
Vi sono due possibilità che, con motivazioni differenti, sono comunque accomunate da un fil rouge che evidenzia, in modo plastico, la ipocrisia di tante dichiarazioni e, alla fine, anche la pochezza etica di questi “uomini d’oro”.
La prima, più semplice, è quella indotta dal considerare che gli affari sono indipendenti dalle idee – e ancor di più dalle ideologie -, per cui le “simpatie”, accompagnate da lauti finanziamenti, vanno cinicamente e inesorabilmente là, e solo là, dove permettono di incrementare i propri business. Questo sarebbe in linea con quanto sostenuto da chi ritiene che «bisogna investire solo là dove i profitti promessi sono maggiori e sono, come minimo, positivi» (J.M. Buchanan) e da chi, aziendalmente, ritiene che i manager sono dei dipendenti dai proprietari-azionisti e devono perseguire solo i loro interessi, rigettando la stakeholder view e la responsabilità sociale d’impresa sul piano economico ed etico (M. Friedman).
La seconda possibilità, molto meno studiata ma che a me appare meritevole di attenzione, è che anche i potentissimi uomini d’oro siano “filogovernativi” solo per paura, per una incredibile paura che i loro “imperi” possano disfarsi a causa di decisioni ostili del potente in carica, soprattutto se quest’ultimo mostra palesemente inclinazioni autoritarie e poco adatte all’ordinario andamento dell’alternanza democratica per come conosciuta fino a ora.
Il fil rouge che lega queste due possibili motivazioni è, comunque, rinvenibile nel desiderio di aumentare, o al limite, preservare il proprio patrimonio, nella incuranza delle conseguenze che possono discenderne ai fini della tenuta degli assetti democratici e anche di quanto, fino a quel momento, garantito in termini di socialità e di partecipazione alla diffusione di un sano pluralismo culturale.
Tutto quanto sopra ha comportato la emersione palese di un magic circle economico e politico in una realtà da sempre considerata a forte connotazione democratica, probabilmente anche sulla base di una narrazione enfatizzata del “sognodella piena libertà di fare impresa, di cadere e rialzarsi, di essere sempre guida nello sviluppo tecnologico e nell’affermazione e nella tutela dei diritti e, in generale, della libertà, di tutte le libertà.
Ma l’aspetto, per me, di gran lunga più pernicioso di questo nuovo corso è l’incidenza sulla libertà fondamentale della formazione e della informazione, con l’esplicito controllo censorio delle opinioni e l’invito, inelegante e moralmente inqualificabile, a non scrivere commenti contrari alle idee della maggioranza in carica, nonché, addirittura, a limitare l’istruzione pubblica, incrementando, in tal modo, le disuguaglianze sociali e, di fatto, inferendo un colpo durissimo a chi coltiva l’idea della formazione come volano per il progresso e come antidoto contro il blocco dell’ascensore sociale.
Questi revirement portano, tra l’altro, anche a interrogarsi sulla loro ineluttabilità nonché, per quanto ci riguarda, sulla loro compatibilità con la crescita, culturale ed etica, oltre che con i principi a base della nostra comunità.
Da noi, dal 1948 in poi, non si è mai portato all’eccesso questa sorta di spoliazione delle possibilità, questo voler cristallizzare posizioni sociali così differenziate, questo voler impedire in tutti i modi la possibilità dell’alternanza.
Anzi, val la pena ricordare, proprio sul tema della formazione, che l’art. 34 della Costituzione, dopo aver sancito che la scuola è aperta a tutti e che l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita, stabilisce che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Questa disposizione deve essere letta unitamente a quella dell’art. 3, c. 2, laddove si ricorda che uno dei compiti fondamentali della Repubblica è quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questo contesto risuonano le parole di A. Sauvy quando ricordava che «ben informati, gli uomini sono dei cittadini; mal informati, diventano dei sudditi».
Credo che si debba essere orgogliosi custodi di queste straordinarie e lungimiranti norme, dal forte contenuto etico ed economico, e ricordarle quando ci si confronta con coloro, e non sono pochi, i quali, forse immemori della nostra Costituzione e della sua genesi, guardano con infantile entusiasmo alle esternazioni di chi sbeffeggia e mortifica il debole in uno stato, peraltro, di indicibile bisogno.
Così come, se si potesse, sarebbe bello ricordare ai paurosi uomini d’oro, protesi solo agli affari e all’affarismo, lo straordinario discorso del 18 marzo 1968 con cui Bob Kennedy, parlando alla Kansas University ricordava che «…il Pil … misura tutto, in poche parole, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta…».

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