La guerra di Trump, di Manlio Graziano

La rissa in diretta tra Donald Trump e del suo fido J.D. Vance da una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra si commenta da sé.
Quello che stupisce di più, in questa storia, non è il comportamento grossolano e ricattatorio del presidente americano, e nemmeno la portata della sua furia vendicativa in patria, ma il fatto che nessuno, all’interno degli Stati Uniti, sembri essere capace di mettervi un freno, di arginare quell’ira funesta riportandola nell’alveo istituzionale, un tempo solido, di quella che continua a essere la prima potenza economica, militare e politica del mondo.
Questo è l’aspetto più sconvolgente – nel senso letterale della parola: che sconvolge non solo gli equilibri internazionali (mai prima d’ora la parola «equilibri» è apparsa così priva di senso), ma anche gli equilibri interni agli Stati Uniti.
Ci si potrebbe quasi chiedere se questo procedere sfrenato, sfrontato e senza bussola riuscirà a distruggere prima gli Stati Uniti o il resto del mondo – ben sapendo che l’autodistruzione degli Stati Uniti implica necessariamente la distruzione del resto del mondo.

Riunire gli europei
Sul piano internazionale, Trump e i suoi volenterosi carnefici stanno creando le condizioni perché accada al più presto tutto ciò che gli Stati Uniti hanno voluto evitare negli ultimi ottant’anni, se non di più: tra le altre cose, stanno spingendo gli europei a unirsi – e ad armarsi – contro una minaccia comune, che non è certo la Russia ma, in modo sempre più palese, l’America stessa.
Vedremo cosa uscirà dal vertice di Londra domenica: in ogni caso, buttare il Regno Unito nelle braccia dell’Unione europea – se quello fosse l’esito – sarebbe un altro capolavoro del signor Trump che getterebbe nell’immondezzaio decenni di meticolose operazioni, anche militari, per mettere un cuneo tra Londra e il Continente.
Nei giorni scorsi, qualcuno deve aver fatto al presidente un riassuntino della storia dell’Unione europea. E lui, elegante mago della comunicazione, ne ha tratto il sunto: l’UE è nata per «screw» gli Stati Uniti, per «fottere» gli Stati Uniti.
Le cose sono un poco più complesse, ma in fondo è vero che l’ipotesi di Charles de Gaulle, all’origine, fosse anche quella, non tanto per ostilità nei confronti dell’America (indubbia, nel caso di de Gaulle), ma per fare dell’Europa a trazione parigina l’alternativa al mondo bipolare guidato da Washington in combutta con Mosca. Il «terzo polo», insomma.
Lasciamo da parte il carattere velleitario dell’ipotesi gaullista, ma traiamone anche noi due considerazioni semplici: la prima è che oggi, colpendo e affondando l’atlantismo del più atlantista dei protagonisti del progetto europeo – la Germania – l’ipotesi di de Gaulle è meno velleitaria; la seconda è che, in politica, e in politica internazionale in particolare, lo scopo di tutti è di screw i propri competitori.
E più si è forti, più si è in grado di farlo; ergo, gli Stati Uniti, negli ultimi ottant’anni, sono stati gli screwers-in-chief della politica mondiale. Non c’è da scandalizzarsene, la politica è fatta così. Ma Trump, ovviamente, la politica non sa dove stia di casa, né gli interessa saperlo.

Il resto del mondo si adegua
Sul fronte asiatico, l’impennata americana non può che turbare i sonni del Giappone e della Corea del Sud, ma anche del Vietnam e delle Filippine, e probabilmente dell’Indonesia e dell’Australia.
E di sicuro, solleva molti interrogativi preoccupati in Cina, dove la bromance tra Trump e Putin è letta innanzitutto come una manovra per isolare Pechino.
Tokyo e Seul pensano sempre più seriamente a dotarsi di una loro dissuasione nucleare, mentre l’ipotesi di un fronte del Pacifico (o addirittura euro-pacifico), comprendente la Cina, per premunirsi dall’imponderabile leggerezza di Washington non è più così surreale.
Altro risultato che dovrebbe impensierire più d’uno negli Stati Uniti è che costringere l’Ucraina alla resa incondizionata o deportare milioni palestinesi è la strada più corta per spingere centinaia se non migliaia di individui a imboccare la via del terrorismo.
Il terrorismo, si sa, è l’arma degli sconfitti e dei disperati: aggrava sempre la sconfitta e la disperazione ma, intanto, lascia una scia di sangue che eccita vendette esponenziali e quindi sparge molto altro sangue. Bisogna prepararsi.
Al contrario, Donald Trump e i suoi si stanno attivando a smantellare proprio l’apparato di sicurezza americano, quello che, dal 2001, ha impedito altri atti di terrorismo sul suolo patrio.
Il dipartimento incaricato di licenziare i funzionari statali infedeli sta svuotando la macchina amministrativa, le rotelle che permettono all’orologio di funzionare, e rimpiazzando dirigenti e impiegati competenti e sperimentati con giovanotti inesperti nel migliore dei casi, e con giovanotti inesperti e razzisti nel peggiore. La caccia all’immigrato, poi, sta svuotando le casse del Paese (perché costa, e molto) e i posti di lavoro americani.
I tassi di fertilità dei superstiti non potranno mai compensare i vuoti che si stanno creando, e quindi la macchina produttiva della prima economia mondiale rischia di essere doppiamente compromessa dalla carenza di manodopera e dalla rottura della macchina amministrativa che sta in cabina di regia.
Trump ha esplicitamente invitato gli operatori economici stranieri a investire direttamente in America, approfittando dei tagli fiscali e aggirando in questo modo i dazi.
Potrebbe essere un’idea astuta, in sé; ma il clima di grave turbolenza creato dalla nuova amministrazione scoraggia ogni possibile iniziativa in questo senso. A voler giocare sul paradosso, si potrebbe dire che, oggi, l’investitore medio valuta più sereno il clima politico di Damasco che quello di Washington.

Il cerino della crisi
Ultimo, ma di sicuro non meno importante: la guerra dei dazi farà più vittime della guerra di Gaza, di Ucraina e del terrorismo. Se, su tutto l’olio incendiario che sta spargendo l’amministrazione di Washington, cadesse il cerino di una crisi economica mondiale provocata dai dazi, la conflagrazione sarebbe spaventosa.
I libri di storia sono spesso obbligati a semplificare. La Seconda Guerra mondiale è spesso descritta come la guerra di Hitler. Trump, da qualche tempo, butta sempre più di frequente sul tappeto delle discussioni lo spettro della Terza Guerra mondiale.
Le cause delle guerre sono molto più complesse di quanto si pensi quando le si personalizza, quando le si imputa all’imprevidenza, al sonnambulismo o anche alla follia di questo o quello. Ma se Trump vuole passare alla storia – e sicuramente ci riuscirà – la terza guerra mondiale sarà la guerra di Trump, se ci sarà la guerra, e se ci sarà qualcuno per scrivere libri di storia dopo quella guerra.

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