Secondo i dati del rapporto dell’UNHCR riferiti alla metà del 2022, si contano oltre 89 milioni di persone nel mondo che hanno abbandonato forzatamente la loro abitazione. Una persona su 78 sulla terra è stata costretta a lasciare la sua casa. Il 69% proviene da soli 5 Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar. Il 41% sono bambini.
Nel suo saggio Profughi, Arianna Arisi Rota – docente di Storia delle rivoluzioni del Mediterraneo nell’Ottocento e di History of Diplomacy nell’Università di Pavia – riesce nell’impresa non facile di giungere al cuore stesso della nozione di sradicamento a partire dal quadro-icona di Francesco Hayez, che racconta la vicenda di una piccola città greca ceduta dagli inglesi alla Sublime Porta nel 1819: un caso internazionale che monopolizza anche l’interesse dell’esule Foscolo. L’autrice si chiede cosa sappiamo dei bambini profughi invitandoci a volgere lo sguardo agli scatti di Andrew McConnell che li immortala mentre si improvvisano equilibristi su una vecchia tubatura, ricorda che 17 anni dopo l’esposizione a Brera, avvenuta nel 1831, del capolavoro di Hayez – ora custodito nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia – sono i milanesi a diventare profughi: in oltre 70mila cercano scampo verso il Piemonte come emerge da una stampa dell’epoca che mostra carretti stracolmi di gente, di masserizie, di neonati che le donne si stringono al petto, mentre un bambino si copre gli occhi con la mano. Anche lui per non guardare o per nascondere le lacrime come il fanciullo de I profughi di Parga che preme il viso contro il corpo del padre, consapevole che qualcosa sta accadendo. Gli hanno fatto lasciare casa all’alba portando con sé niente e lo hanno trascinato lì. Un attimo che vale una vita: guardare indietro? Guardare avanti? L’attraversamento che lo attende è quello di un doppio confine: materiale ed emotivo, tra la terra dove è nato ed una destinazione ignota. «Sta cercando scampo».
Sta diventando profugo come gli uomini, le donne e i tanti bambini che dal 25 febbraio 2022 lasciano Kiev. Nell’arco di cinque giorni quasi 500mila persone abbandonano le loro case. In un mese sono quasi 4 milioni: i flussi umani più veloci dalla II guerra mondiale. Ora, cosa sappiamo dei bambini profughi di due secoli fa? Lo stereotipo ottocentesco ci parla di uomini soli, con lo sguardo perduto verso la patria; mentre le donne, i bambini, gli anziani rimanevano sullo sfondo, attori invisibili: figure che, invece, vengono assurte a protagoniste nel fermo-immagine di Hayez. L’occasione propizia di un committente generoso, il conte Paolo Tosio, la ballata in tre parti composta da Giovanni Berchet, intitolata, I profughi di Parga e pubblicata nel 1823 che Hayez utilizza a mo’ di sceneggiatura per la tela, tre anni di studio scrupoloso di topologia, etnologia e folklore, i tanti soggetti che si affollano nella sua mente costituiscono la condizione ideale per dare vita a «il primo quadro con soggetto greco moderno».
L’abbandono dal sapore definitivo è tutto lì, nel ricordo in prima persona plurale, come lì c’è la paura, la rabbia, la disperazione, lo spavento provocato dal mare aperto. Un mare che, a differenza degli abitanti di Parga, tanti profughi di oggi che attraversano il Mediterraneo non hanno mai visto. Il naufragio va messo in conto negli esodi via mare. Diventare profughi significa sospendere il tempo interiore, congelarlo anche se si è costretti a continue ripartenze, a continui inizi. Gli uomini e le donne immaginati da Hayez sul piedistallo roccioso tra Parga e il mare sono esattamente in questa condizione di sospensione temporale. In primo piano, in basso a sinistra, una giovane dagli occhi sbarrati verso l’alto, lo sguardo quasi assente, sta seduta a terra ignara di quanto le accade alle spalle. Nella mano sinistra tiene a stento un ramo d’olivo. Ma a catturare l’attenzione è l’oggetto che ha vicino al suo fianco: un teschio superstite della mesta cerimonia in cui i pargioti hanno dissotterrato i resti dei padri, li hanno bruciati su un rogo per non lasciarli nelle mani degli occupanti. Il fumo che si leva dal villaggio è ciò che rimane del rito simbolico compiuto prima dell’alba. Ma perché la giovane, a differenza degli altri, non ha distrutto la sua “reliquia”? Perché quello è tutto ciò che le rimaneva, è il suo bagaglio, è ciò che resiste della sua memoria visiva e tattile. Per il pittore, «genio democratico», come lo definisce Mazzini, si tratta della massima rappresentazione di attualità possibile in un regime di censura come quello austriaco. La sua capacità di rappresentare le emozioni fa dire a Stendhal che gli sembra il primo pittore vivente capace di trasmettere qualcosa di nuovo sulle passioni che dipinge. Si pensi alla rappresentazione di chi sta diventando profugo, che è affidata ad un triangolo femminile composto da tre donne, poco più che ragazze, che consegnano al contatto silenzioso con un tronco di olivo o alla raccolta di un pugno di terra la possibilità di far durare un ricordo. Si pensi ancora al gruppo centrale, che è corale e che incarna tutti i dolori e tutte le passioni che hanno impegnato il pittore. Per non dire dell’anziano, che si scorge in fondo al gruppo, portato sulle spalle forse da un figlio, torcendo la testa verso il pericolo scampato. La vicenda pargiota si trasforma in un dramma collettivo, in vita vissuta, in gemiti e pensieri che traspaiono dai volti restituendoci «un’unica storia di pietas». L’autrice ha ragione: «La scommessa di Hayez, fare pittura civile, è vinta».
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