Io abito la mia vita: Marc Chagall a Conversano, di Matteo Losapio

Molto si è scritto su Marc Chagall, ma ancora troppo poco. Non perché ci manchino le parole per poter raccontare la sua opera, ma perché risulta sempre e comunque difficile carpirne l’essenza. Un’arte, quella di Chagall, che ha attraversato le più grandi catastrofi del Novecento, le più grandi ondate di persecuzione e di rivoluzione, di guerra e di violenza, restituendoci paesaggi onirici, fiabe animate, trasformazioni improbabili, gioie che resistono al lutto e alla paura.

Marc Chagall nasce a Vitebsk nel 1887 da una famiglia di origini ebraiche. Dopo aver trascorso l’infanzia nella cittadina Bielorussa e aver conosciuta la sua futura moglie, Bella Roselfield, si trasferirà a Parigi, il luogo che segnerà la sua opera e il suo percorso d’artista. Dopo aver partecipato alla Rivoluzione Russa nel 1917 ricevendo anche l’incarico di fondare una accademia d’arte e una scuola d’arte, si dirige nuovamente a Parigi e poi negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni del regime nazista nei confronti degli ebrei. Nel 1944 perde Bella a causa di una malattia mal curata e, con essa, anche l’amore per la vita e per la pittura. Per un anno non dipinge più nulla, ma poi, grazie alla figlia Ida, ritrova l’amore per la vita e il coraggio di dipingere ancora divenendo uno dei maggiori artisti del Secondo Dopoguerra. Morirà nel 1985 a Saint-Paul-de Vence, quasi centenario. Quasi un secolo di produzione artistica e pittorica nel più profondo Novecento, nel mondo delle due guerre mondiali, dell’Olocausto, della persecuzione razziale, della violenza sistematica. Fa specie e, per certi versi, suscita quasi scandalo una pittura onirica e, a prima vista, così poco impegnata politicamente nel secolo più breve e più tormentato che abbiamo vissuto.

Eppure, quando si viene fuori da una mostra di Chagall non si può far altro che stare bene. La potenza della sua opera si concentra esattamente in questo punto, sullo spartiacque fra la disperazione e ciò per cui vale la pena ancora lottare e gioire nella vita. In questo senso, allora, possiamo leggere anche la mostra Marc Chagall. Sogno d’amore presso il Castello di Conversano in Puglia. Non una retrospettiva sull’artista, la quale chiederebbe un allestimento estremamente complesso ma un accenno esperienziale alla sua opera raccolta sotto il segno dell’amore. nell’epoca della violenza del Novecento, ecco che Chagall tiene fisso il suo sguardo sul mistero dell’amore che si riverbera in mille e mille ramificazioni dell’onirico. Amore per la propria città, amore per la famiglia, perle origini, amore per la religione, per la rivoluzione, per il racconto, la fiaba, amore per sua moglie Bella. Tutto ciò che ricade sotto lo sguardo di Chagall prende vita attraverso un amore per la vita ritratta attraverso il sogno del pennello. Sogni in cui nessuna violenza può accedere, sogni che non ci fanno fuggire dalla realtà, ma salvano dalla realtà ciò che è davvero essenziale, ciò che non può essere distrutto dalla guerra e dall’odio. Ecco, allora, come l’opera di Chagall, che a prima vista può sembrare fuori da ogni contesto politico di nuda e cruda descrizione della guerra e dello sterminio, diviene lo spazio e il tempo in cui tutto rimane vivo, in cui la vita resiste alla morte. Ecco, allora, che il sogno diviene un atto politico di resistenza, che l’amore diviene il solo motore che permette la salvezza di ciò che, in questa vita, sembra irrimediabilmente perduto. E allora, il circo e gli animali come ricordi d’infanzia, il ciclo dell’Esodo legato alla tradizione ebraica, ma anche le favole di La Fontaine come dono per le future generazioni, fiori e città, tutti elementi rinchiusi nelle splendide sale del castello di Conversano. Ma, soprattutto, l’amore per Bella, l’amore per la donna che ha accompagnato Chagall anche oltre la sua morte, diventando tassello fondamentale della sua opera. Ogni opera richiama alla potenza di un amore che non è solo romantico né tantomeno ingenuo, ma un amore che è potenza di vivere, energia divina che scorre nell’arte e nel modo di guardare il mondo. Per questo motivo, ogni volta che si ammira l’opera di Chagall le parole incespicano e lo sguardo si apre alla contemplazione di una vita che vale la pena vivere anche quando tutto intorno si fa cupo e oscuro. Un amore che, come ricorda Chagall in un ciclo pittorico del 1968, ci permette di abitare la vita. J’habite ma vie, tradotto come vivo la mia vita, in realtà è letteralmente io abito la mia vita. E, come ci ricorda Chagall, si può abitare la vita in maniera autentica solo attraverso l’amore. Ed è in questa potenza divina dell’amore che nulla va perduto e tutto richiama alla salvezza, una salvezza attraverso la bellezza, una salvezza che non chiude gli occhi dinanzi all’orrore, ma dall’orrore (ci) salva. Questo è l’insegnamento di Chagall valido anche nel nostro mondo di violenza, di persecuzione, di barbarie e di consumismo. Dove solo la potenza divinizzante dell’amore ci può permettere di abitare la vita.

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