Intelligenza artificiale, etica e conflitti, di Alessandro Curioni

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti, per la semplice ragione che siamo diventati bravissimi a conservare qualsiasi dato e quindi potenzialmente è possibile sapere proprio tutto di tutti.
Secondo le previsioni dell’Unione Europea, entro il 2025 la quantità di dati gestita su scala globale potrebbe raggiungere i 175 zettabyte (175 seguito da 21 zeri). Una quantità di informazioni impossibile da governare per un essere umano, ma qualcuno promette che quanto a noi negato sarà possibile per le intelligenze artificiali. Tuttavia, si pone una questione: siamo disponibili ad accettare delle informazioni o addirittura una chiara indicazione di comportamento senza comprendere le logiche che li hanno formati? 

Nell’intelligence ci sono, tra le altre, due regole fondamentali e riguardano l’attendibilità della fonte e la fondatezza della notizia. Ora, nel momento in cui io delego ad un’intelligenza artificiale un’analisi di questo tipo come è possibile garantire tutto ciò? Il problema in effetti sta tutto nei numeri. ChatGPT, per esempio, è stata originariamente addestrata sulla base di 45 terabyte di dati che comprendono tutto Google Books e tutta Wikipedia, ma non solo. Per trovare gli schemi il suo algoritmo vanta 175 miliardi di connessioni. Pensare di ripercorre al rovescio la strada che ha portato un’IA ad arrivare a una determinata conclusione potrebbe richiedere mesi lavoro o addirittura essere impossibile. In questa condizione trova spazio quella che i tecnici definiscono l’opacità dell’algoritmo, proprio perché in molti casi non si è in grado di sapere su che base arriva a determinate conclusioni. Dunque, si presenta il paradosso per cui i decisori dovranno sviluppare una maggiore tolleranza al rischio di sbagliare e questo in cambio di un’elaborazione istantanea di grandi volumi di dati. 

A questo si aggiunge un altro fattore non trascurabile: non tutte le intelligenze artificiali la penseranno nello stesso modo. Spesso mi sono trovato a descrivere questo fenomeno come “dual think”. Emblematico il caso della Cina dove lo scorso anno sono state pubblicati i requisiti base per una intelligenza artificiale generativa per operare sul territorio cinese. All’articolo 4 di questo regolamento si legge che essa “deve aderire ai valori socialisti evitare qualsiasi possibilità di utilizzo per sovvertire o incitare alla sovversione dell’ordine costituito”. Questo è un dato di fatto a cui dovremo abituarci: le intelligenze artificiali non saranno neutrali e non potranno esserlo. 

Noi europei non ci comporteremo in modo diverso da Pechino, con l’aggravante di essere tanto arroganti da pensare che i nostri valori siano quelli universali. Anche noi, quindi, vorremo difendere dei valori morali, politici e tutte quelle verità che, come diceva il filosofo Carlo Sini, sono relativamente assolute in un certo luogo e in un certo tempo. E come noi i paesi arabi, l’India e via dicendo. Qualsiasi intelligenza artificiale non può essere super partes perché si basa su ciò in cui crede chi l’ha creata e addestrata. Questa è una tecnologia divisiva e quel mondo che una tecnologia ha unito, cioè internet, un’altra potrebbe tornare a separare, perché noi vorremo le “nostre intelligenze artificiali”. Quindi dobbiamo iniziare a pensare che il detto: “paese che vai usanza che trovi” magari tra cinque o sei anni tornerà terribilmente di moda.
La questione che ci troviamo ad affrontare può essere posta in questi termini: siamo pronti basare delle scelte, che possono condizionare i destini di una nazione o di un continente, sulla conoscenza generata da qualcosa di cui non comprendiamo fino in fondo le logiche profonde e che facilmente sarà afflitta da bias cognitivi talmente profondi da risultare invisibili ai nostri occhi? Credo sia arrivato il momento in cui si deve iniziare a pensare che il problema non è l’etica da mettere nelle intelligenze artificiali, ma l’etica con cui le utilizzeremo. Per quanto, sono ragionevolmente certo che questo non ci renda felici.

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