IN ARGENTINA UNA DESTRA DESTITUENTE, DI MIGUEL MELLINO

L’Argentina sta attraversando uno dei momenti più delicati della sua storia. L’elezione a Presidente di Javier Milei sta mettendo a serio rischio buona parte dei diritti sociali e democratici conquistati dalle lotte della classe lavoratrice argentina nel XX secolo. Alle nostre latitudini, con analisi a partire da contesti storici e sociali assai diversi da quelli dei paesi latinoamericani, non è possibile cogliere efficacemente la gravità e l’esplosività della situazione. Il «processo Milei» eccede tutte le categorie di comprensione che di solito a esso vengono associate: sovranismo, ultradestra, neoliberalismo, destra libertaria mostrano solo una parte della traducibilità di questo fenomeno politico all’estero. Ancora meno adatta, come sa chi conosce davvero la storia dell’Argentina e dell’America latina, è quella di populismo. Quanto sta accadendo, non può essere nemmeno liquidata come una semplice regressione in materia di diritti, simile a tanti altri, o come un mero ritorno all’estremismo neoliberale degli anni Novanta. Il processo Milei, e come si vedrà non usiamo a caso questa espressione, rappresenta un attacco frontale, e non solo da un punto di vista formale o liberale, allo stato di diritto così come lo abbiamo conosciuto. Il quarantesimo anniversario del ritorno alla democrazia nel paese non poteva avere come cornice istituzionale uno scenario peggiore.

Un governo di emergenza

Già dalle prime misure varate subito dopo la sua assunzione ufficiale dell’incarico, in una cerimonia celebrata per la prima volta nella storia in piazza e voltando intenzionalmente le spalle al congresso, Milei ha mostrato la sua avversione per ogni procedimento formale costituzionale, presentando un pacchetto di quasi 900 leggi per mutare radicalmente l’assetto giuridico-istituzionale dello Stato argentino mediante un Decreto Nazionale di Urgenza (Dnu) e una Legge Omnibus. Si tratta di due maxi-provvedimenti emessi con procedura di urgenza in modo da bypassare i meccanismi democratici formali tipici di ogni democrazia parlamentare. Il processo Milei incarna un progetto autoritario e messianico (non si sottovaluti la conversione all’ebraismo ortodosso del presidente) di rifondazione istituzionale, un reale «processo di riorganizzazione nazionale», l’espressione usata da primo comunicato della giunta militare nel 1976 e ripresa dallo stesso Milei durante il suo discorso di insediamento. Il Dnu è già entrato in vigore da quasi un mese e mezzo, e potrà essere revocato soltanto dai tribunali. Proprio in questi giorni la legge omnibus è stata respinta dal parlamento, nonostante l’opposizione friendly del Pro di Macri, della vecchia Ucr e del peronismo di destra, e dovrà tornare nelle commissioni. Questi due provvedimenti sono stati accompagnati da un terzo – il cosiddetto Protocollo Repressivo della ministra della sicurezza, Patricia Bullrich – che autorizza la violenza statale e cioè la sorveglianza, la prevenzione arbitraria e soprattutto la repressione poliziesca indiscriminata di ogni manifestazione pubblica di dissenso, di ogni blocco di strade a causa di proteste, così come l’aumento delle pene di reclusione per reati politici. Già nelle prime manifestazioni di opposizione al governo abbiamo visto scene – arresti indiscriminati, attacchi feroci e intimidatori delle forze dell’ordine ai manifestanti e anche alla stampa – che non si vedevano dagli anni più bui della storia del paese. Da notare che il protocollo è divenuto operativo prima della sua approvazione in parlamento. Un’eccezione che opera in uno stato di eccezione più ampio.

L’agenda di governo del processo Milei eccede anche qualsiasi tentativo di comprensione attraverso categorie economicistiche, anche tipicamente neoliberali, come austerity, aggiustamento strutturale, azzeramento del deficit fiscale, riduzione del debito pubblico, ecc. Nella sua essenza è un tentativo di cambiare, secondo una modalità autoritaria e intransigente, la costituzione materiale dello Stato-nazione, ovvero di eliminare qualsiasi tipo di regolazione istituzionale della vita sociale e ambientale per favorire in modo dispotico non il «libero mercato», bensì la produzione di valore, la speculazione e la rendita finanziaria, l’appropriazione di terre da parte di grandi proprietari e corporazioni e l’estrattivismo in tutte le sue dimensioni, senza alcun tipo di mediazione (giuridica, sindacale, ecc.). Si tratta di un modello di società di tipo pre-contrattualista, un modello di accumulazione brutale fondato sull’assurda concezione secondo cui la società è fatta soltanto dal libero scambio tra individui. Da qui la sua infatuazione per Margaret Thatcher. Così, con i suoi due decreti fondativi, sommati a una svalutazione della moneta del 120%, alla liberalizzazione dei prezzi dei generi alimentari, dei farmaci e dei contratti per gli affitti, alla cancellazione di ogni sussidio statale al trasporto e ai servizi pubblici (acqua, luce, gas, ecc.) e al blocco delle opere pubbliche, il processo Milei si è tradotto in uno dei più brutali trasferimenti di ricchezza di tutta la storia argentina dalle classi popolari all’oligarchia agro-finanziaria. Le statistiche in questi mesi registrano un calo del consumo dei generi alimentari di prima necessità del 40%, insieme a un crollo del 40% degli acquisti di farmaci essenziali. Un’estrazione feroce su una popolazione socialmente già allo stremo, dopo tre anni di inflazione galoppante.

È questo il primo risultato di un’applicazione sadica, fanatica e alla lettera della terapia dello «shock economico» di Milton Friedman, il quale sosteneva che la rifondazione in senso neoliberale di una società doveva avvenire nei primi sei mesi di governo e, se possibile, nel pieno di una grave crisi economica. E tuttavia il «messianismo neoliberale» di Milei non è del tutto comprensibile al di fuori della storia coloniale dell’Argentina. Sta qui la sua principale differenza con i sovranismi del Nord globale. Il processo Milei affonda il suo immaginario politico nel progetto del «colonialismo d’insediamento» razziale delle élites bianche creole argentine di fine Ottocento, ovvero in un paese oligarchico governato da un blocco sociale agro-esportatore liberale e assai vincolato al capitalismo finanziario internazionale dell’epoca, e quindi fondato sulla negazione ed esclusione strutturale delle masse autoctone. Il processo Milei trae buona parte della sua linfa culturale da questa Argentina coloniale e pre-peronista, ovvero da un modello di paese costruito su un genocidio di stato e cioè sull’esclusione e repressione dei «gauchos» e delle masse proletarie meticce, e sullo sterminio pianificato dei popoli indigeni e degli afro-discendenti. Il «ritorno all’Argentina potenza» invocato da Milei, la sua santificazione di una personalità storica come Juan Bautista Alberdi (1810-1884), sta a significare un ritorno messianico a questa sorta di «paradiso adamico» rappresentato da un paese fondato sul terrorismo di stato, ovvero su un progetto volutamente omicida di «bianchizzazione» della popolazione. Sta qui il senso della prima frase enunciata da Milei durante la cerimonia di assunzione: «È finita la lunga notte populista, viva la libertad carajo!». Milei vede la storia post-peronista come una storia di progressiva decadenza economico-culturale; e questa decadenza, nella sua enunciazione, è dovuta ai diversi tentativi populisti di inclusione del cosiddetto «subsuelo de la nacion» (il proletariato autoctono e meticcio) nella grammatica istituzionale della cittadinanza moderna, e attraverso la redistribuzione della ricchezza. È su questo sfondo della storia nazionale che va interpretata una delle sue enunciazioni più note: «Qualsiasi tentativo di giustizia sociale è un’aberrazione». Non può sorprendere dunque se nel processo Milei si cercherà di azzerare, prima o poi, come peraltro già annunciato, le importanti ed esemplari conquiste di trent’anni di lotta per i diritti umani, per la Memoria, la Verdad y la Justicia, riguardo ai delitti di lesa umanitàcommessi dal terrorismo di Stato durante l’ultima dittatura civico-militare tra il 1976 e il 1983 finita con 30mila desaparecidos. Da quanto detto, inoltre, non è difficile intuire che lo schieramento internazionale con Stati uniti e Israele, e l’uscita dai Brics, già annunciati da Milei, non obbediscono soltanto a ragionamenti puramente geopolitici, o semplicemente ideologici, e meno che mai economici, poiché Cina e Brasile sono i principali partner economici dell’Argentina, ma ha radici piuttosto profonde.

Patria No, colonia Sì 

Patria No, colonia Sì: sembra lo slogan più adatto per questo pseudo-sovranismo di Milei. Nessun protezionismo, nessuna salvaguardia dell’economia o dell’industria nazionale, nemmeno retorica, nessuna sovranità dello Stato-nazione. Anzi, i due mega-decreti prevedono un nuovo saccheggio di ogni risorsa economica, sociale e naturale, ovvero la privatizzazione di tutte le aziende pubbliche rimaste, l’apertura illimitata dell’economia e del territorio nazionale al grande capitale e alla speculazione finanziaria transnazionale, e quindi la distruzione di ciò che resta della ricchezza comune. Una simile agenda di governo è, volutamente, una strada a senso unico: non può portare che alla dollarizzazione dell’economia, già annunciata in campagna elettorale e formalmente avviata dalla prima brutale svalutazione ufficiale del peso e dall’emissione di buoni in dollari da parte della Banca Centrale. Il processo Milei insegue la soluzione economica già sperimentata dall’Ecuador, e finita in una catastrofe sociale. Ma insegue anche un vecchio sogno del blocco di potere agro-finanziario tradizionale che lo sostiene, ma soprattutto lo usa: negli anni Trenta del Novecento, i rappresentanti di quell’Argentina coloniale bucolica invocata da Milei chiesero ufficialmente all’impero britannico di entrare a far parte del Commonwealth, e cioè di divenire a tutti gli effetti una colonia britannica. Se quindi di sovranismo si può parlare, quello di Milei è incentrato su quattro elementi: dollaro, rendita agro-finanziaria, soluzione e prevenzione autoritaria della dialettica politica e dei conflitti sociali, violenza statale. Più che uno stato regolato dal libero mercato, occorrerebbe parlare qui di ciò che è stato definito come «corporate state», e cioè dell’ascesa al potere di una «classe corporativa» (proveniente in buona parte da importanti banche, multinazionali e agenzie finanziarie globali) che sussume la razionalità di governo entro una sottomissione assoluta e generalizzata dell’intera società agli interessi delle grandi corporazioni economiche, nazionali e transnazionali. Lo «Stato corporativo» diviene qui lo strumento necessario a garantire un’estrazione illimitata di valore e lavoro dal corpo sociale. Capitalismo cannibale, capitalismo estrattivo, certo; ma il liberalismo argentino mostra anche in questa sua nuova versione un suo vecchio abito: un uso sovrano (di eccezione) dello stato, della legge e delle istituzioni, ovvero una certa pulsione irrefrenabile a imporre la propria legge di accumulazione del capitale attraverso il ricorso alla forza e alla violenza della macchina statale. Si tratta di un’altra versione di ciò che è stato chiamato «il neoliberalismo come eccezione».

Un governo d’eccezione: l’opzione destituente dell’ultradestra

Javier Milei rappresenta questo governo di «eccezione».  Mentre scrivo, la camera ha respinto la legge omnibus, che dovrà così tornare nuovamente alle commissioni. La legge non è passata in alcuni dei suoi punti problematici, come il conferimento di facoltà straordinarie al presidente per due anni in materia finanziaria, economica, fiscale e di sicurezza, e sugli articoli riguardanti le privatizzazioni a scatola chiusa di buona parte delle aziende pubbliche. La reazione di Milei è stata all’altezza di tutto ciò che egli rappresenta, anche a livello storico: durante la sua visita in Israele, in pieno furore messianico-religioso, ha accusato di tradimento decine di parlamentari (la casta) «che non vogliono il cambiamento voluto dagli argentini per bene», annunciando anche future «punizioni personali». Ma la cosa più grave è che ha rilanciato la minaccia che aveva già espresso il giorno stesso della presentazione del primo Dnu, ovvero di chiamare a un plebiscito ogni volta che non gli sarà consentito di governare per decreto. La sua richiesta di facoltà straordinarie, così come la proposta di dichiarare lo «stato di emergenza» per due anni, obbedisce da una parte al fatto che non ha una maggioranza parlamentare, non potrebbe quindi governare senza coalizioni (che chiaramente non vuole), ma dall’altra mostra la sua volontà di governare senza parlamento. Nel caso in cui chiamasse un plebiscito sulla legge e dovesse vincerlo, il che è anche possibile, dato il suo consenso (comunque sempre più in calo) presso una parte importante della popolazione e la totale delegittimazione di cui gode (giustamente) il ceto politico, si potrebbe aprire un conflitto gravissimo tra governo e parlamento.

Siamo giunti così all’interrogativo chiave: come si è arrivati a questo punto? La questione è complessa e oggetto di grande dibattito in Argentina. Meriterebbe quindi un’analisi approfondita in altra sede, ma proviamo ad avanzare qualche ragionamento.

Con più di 14 milioni di voti (in un ballottaggio, poiché nel primo turno ha perso e per questo ha un’esigua rappresentanza parlamentare diretta, solo 38 deputati e 7 senatori), pari quasi il 56% dell’elettorato, Milei è stato il presidente più votato dal ritorno della democrazia nel 1983. Alcuni dei motivi di un trionfo così eclatante appaiono oggi scontati. Prima di tutto l’esaurimento del circolo virtuoso del progetto kirchnerista (2003-2015), incapace oramai da almeno 10 anni di dare una risposta efficace, da una parte, a una situazione economica in costante deterioramento generale, e a cui il re-indebitamento estero del governo Macri nel 2017 con il Fmi diede un irreversibile colpo di grazia, e, dall’altra, a una congiuntura politica segnata dall’ascesa e dalla radicalizzazione delle destre. Devastante, da questo punto di vista, è stata la paralisi del governo di Alberto Fernandez (2019-2023). Anche se a livello dei dati macro-economici, l’eredità del governo Fernandez-Fernandez è tutto sommato positiva (crescita del Pil tra il 7% e il 10% negli ultimi tre anni, disoccupazione a meno del 7%), e non vi era dunque una situazione di crisi terminale, come affermato costantemente da Milei per legittimare la sua dichiarazione dello stato di emergenza. E tuttavia dal 2015 a oggi vi è stato un crescente impoverimento di una parte importante della popolazione, con una crescita abnorme della cosiddetta economia informale (lavoro autonomo e precario) e una perdita continua del potere di acquisto dei ceti medio-bassi a causa dell’inflazione e dell’aumento dei profitti dei ceti più alti. Le statistiche parlano di un 40% di popolazione precipitata in situazione di povertà, di cui un 15% di indigenti, in un paese in cui l’economia comunque cresce, soprattutto, grazie all’estrattivismo e all’agro-business. Così, il kirchnerismo, che ha sicuramente rappresentato un ampliamento dei diritti, e anche una reale redistribuzione della ricchezza, è finito a custodire un «cadavere putrefatto», ovvero una logica discorsiva istituzionale progressista, ma sempre più vuota, e cioè sempre meno legata a una sua traduzione materiali in benefici reali per una buona parte della società.

Si lavora sempre di più e si guadagna sempre di meno, e le classi medio-basse, soprattutto quelle che non hanno avuto accesso ai diversi redditi di cittadinanza e benefici sociali garantiti (con molte contraddizioni) dal kirchnerismo a buona parte dei ceti più bassi, faticano sempre di più a non scivolare nel baratro dell’esclusione (che in America Latina, come si può intuire, è costituita da una condizione sociale e materiale assai diversa e non paragonabile a quella di nessun paese europeo).

Milei, favorito dalla grande concentrazione di potere mediatico espressione diretta del blocco agro-finanziario nazionale tradizionale e dal cosiddetto lawfare (che non va sopravalutato, ma nemmeno snobbato) lanciato contro il kirchnerismo (divenuto oggi una parolaccia nel senso comune) in modo sistematico, con accuse di corruzione, che il più delle volte, a livello giuridico sono rimaste solo tali, è stato abile a presentarsi come outsider totale rispetto a un ceto politico integralmente delegittimato, e a interpellare frustrazione, rabbia e un forte desiderio di ribellione indotto dalla situazione economica. Il suo appello contro i privilegi garantiti dallo Stato a una parte della società; contro ciò che ha definito come il sistema clientelare di prebende incistato nella macchina statale più associata al kirchnerismo e ai movimenti sociali; il suo discorso in favore del merito personale, del presunto valore del lavoro e del sacrificio contro chi vive di sussidi statali (i poveri, i planeros), sommati all’odio razziale-tradizionale dei ceti medio-alti nei confronti del peronismo e del suo principale referente politico (la classe lavoratrice e i ceti popolari autoctoni), si è rivelata un cocktail potentissimo. Non va dimenticato che il punto di svolta per Milei, l’ascesa sociale del suo «Viva la libertà carajo», è avvenuta durante la pandemia, inneggiando contro la chiusura decisa dal governo di Alberto Fernandez. Milei è riuscito così a intercettare lo scontento dei «non garantiti», di tutti coloro che non essendo salariati (e in Argentina è una porzione importante della massa lavoratrice), non avendo redditi fissi, sono stati costretti a diminuire in modo devastante i propri introiti.

In linee generali, si può dire che il 56% del voto a Milei è composto di quel 25-30% dei ceti medio-alti tradizionalmente anti-peronisti (che nel primo turno ha votato essenzialmente per Bullrich), mentre il resto è costituito da quella parte di ceti medio-bassi (anche marginali) e appartenenti alle cosiddette economie popolari e informali, e che stanno pagando da tempo il prezzo più alto della precarizzazione sociale, della stagnazione dei salari, dell’aumento dei prezzi, della mancanza di prospettive future, dell’aumento del tempo di lavoro e dell’insicurezza, ecc. Il voto a Milei di questa parte della popolazione, nelle intenzioni, può essere interpretato come una sorta di voto-punizione all’intero ceto politico, o, ancora, come l’espressione di una volontà punitiva nei confronti di chi si ritiene sia privilegiato, non solo la casta, ma anche quell’altra parte dei ceti popolari che ha avuto accesso ai sussidi sociali, e all’ampliamento dei diritti del kirchnerismo, ma moralmente stigmatizzata da tempo dall’ordine del discorso mediatico.

Da non sottovalutare nel trionfo di Milei, l’intercettazione di un certo rancore sociale maschile, la mobilitazione di un immaginario culturale politicamente scorretto e plasmato da un desiderio di restaurazione patriarcale della società, ovvero il suo discorso anti-femminista come reazione all’avanzata formidabile del femminismo negli ultimi decenni, con la sua messa in discussione dei privilegi maschili in ogni sfera sociale, pubblica e privata. Diverse ricerche hanno mostrato che una componente importante del voto a Milei è rappresentata da maschi giovani tra i 20 e i 40 anni.

Certo, se è più o meno facile decifrare il voto e le sue motivazioni, resta più complicato spiegare altre cose, soprattutto come mai nessuno  nemmeno a sinistra – ha intravisto l’incombere di questa minaccia? Come mai una parte importante del movimento insorgente del 2001, con il famoso «que se vayan todos», per anni motore propulsivo del kirchnerismo, è finito dopo vent’anni nelle mani dell’ultradestra? Molti dunque gli interrogativi da affrontare. Si ripartirà, come sempre, dalle lotte. La memoria storica, e la capacità di resistenza, organizzazione e mobilitazione delle diverse espressioni della classe lavoratrice e dei movimenti sociali argentini, costituiranno un ostacolo durissimo da infrangere per il processo Milei. Ma il superamento di questa delicata contingenza storica, il freno a una sua ulteriore degenerazione, dipenderà necessariamente da un processo di autocritica radicale e generalizzata di tutte le componenti progressiste della società. È da qui che dovrà ripartire un’opposizione trasversale e organizzata al processo Milei.

Sarebbe però sbagliato sottovalutare Milei, limitarsi ai suoi tratti più grotteschi. Abbiamo anche cercato di mostrare che il problema non è soltanto la sua figura, ma tutto ciò che si è mosso dietro, nello specifico, i blocchi tradizionali di potere reale che controllano da tempo i destini del paese. Questo blocco agro-finanziario sta cercando di usare Milei, così come Milei sta cercando di usare loro, in un confronto che rischia di essere tanto destabilizzante quanto socialmente esplosivo, e in una situazione in cui ancora non vi è un qualche soggetto politico che possa capitalizzare un’eventuale nuovo collasso istituzionale. Inoltre, il processo Milei è anche il sintomo di qualcosa di profondo e, nella sua specificità locale, è anche espressione di una congiuntura politica globale. Milei è l’espressione di una destra che non cerca più soluzioni egemoniche, ma che si propone come governo della policrisi (economica, sociale, politica, ecologica, ecc.) del modo di accumulazione capitalistico attraverso una volontà destituente, vale a dire, attraverso la rottura permanente di ogni consenso sociale e politico e di ogni regola del potere (democraticamente) costituito. Da questo punto di vista, Milei riguarda anche noi. Il suo programma può essere uno specchio in cui guardarsi e riflettere, poiché buona parte tanto del suo programma quanto delle sue brutali riforme e attacchi ai diritti del lavoro sono divenute in Europa (chiaramente in un contesto sociale del tutto diverso) la stessa costituzione materiale dell’Ue.

*Miguel Mellino insegna studi postcoloniali all’Università di Napoli L’Orientale. Tra i suoi libri, Post-Orientalismo. Said e gli studi postcoloniali (Meltemi, 2009), Governare la crisi dei rifugiati (Derive Approdi, 2019) e Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale (Alegre, 2020). Ha curato l’edizione italiana di Black Marxism di Cedric Robinson (Alegre, 2023).

Brani tratti dall’articolo di Miguel Mellino “L’Ultradestra destituente”  pubblicato da Jacobin Italia – 12 febbraio 2024

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