Il Venezuela diviso in due, di Emiliano Guanella

Secondo la commissione elettorale venezuelana il presidente uscente Nicolas Maduro ha vinto le elezioni. Lo stesso Maduro ha definito “irreversibile” la sua vittoria, ma la leader dell’opposizione, la conservatrice Maria Corina Machado, dice che “è la sua dipartita ad essere irreversibile”. Il contendente di Maduro era l’ex diplomatico Edmundo Gonzalez, nominato dopo il divieto emanato dalla Corte suprema venezuelana nei confronti di Machado. I due schieramenti si contendono la maggioranza dei voti, col fronte chavista che rivendica il 51% contro il 44% della Piattaforma unitaria di Gonzalez. Ma per l’opposizione la sconfitta di Maduro sarebbe netta, dichiarando di aver ricevuto oltre il 70% delle preferenze. La commissione elettorale venezuelana viene considerata un organo controllato dal governo e le opposizioni ne rifiutano il verdetto. Nella giornata di lunedì, migliaia di manifestanti e dissidenti hanno protestato per le vie della capitale, dove si sono scontrati con la repressione della polizia, dopo quella che – secondo alcuni media – è stata una delle elezioni più pacifiche del paese. Per la giornata di oggi, Maduro ha convocato i suoi sostenitori a Caracas. Il successore di Hugo Chavez, eletto dopo la sua morte, difficilmente lascerà il potere in modo pacifico. La potenziale crisi politica si unisce a un contesto che vede il Venezuela in un baratro economico e sociale, con un’inflazione al 150% e quasi sette milioni di cittadini che hanno lasciato il paese negli ultimi dieci anni.

Maduro perde consensi?
Nelle proteste di lunedì si sono registrati episodi che lasciano pensare che il paese sia sempre più diviso in due, tra i fedelissimi di Maduro e i cittadini che dopo 25 anni di governo socialista chiedono un cambio di rotta. Sarebbero anche state abbattute diverse statue dell’ex presidente Hugo Chavez, sulla cui figura Maduro ha fondato la propria carriera politica, forse senza saperne emulare il carisma. E – secondo il Guardian – molti dei manifestanti che si sono scontrati con la polizia provenivano proprio da quei quartieri poveri, bastioni del movimento chavista, cui Chavez aveva restituito centralità politica e sociale attraverso strutture di autogoverno locale. Tuttavia, da quando Maduro ha preso il potere nel 2013, la situazione socio-economica è collassata. Il prezzo del petrolio, di cui il Venezuela dispone le maggiori riserve al mondo e la cui nazionalizzazione in passato aveva fatto le fortune dello stato bolivariano, è precipitato e con esso il potere d’acquisto delle famiglie. Il settore energetico era stato poi interessato dalle sanzioni USA, rimosse solo per un breve periodo lo scorso ottobre dietro la promessa di una competizione elettorale regolare. Molti venezuelani vivono con paghe inferiori ai 200 dollari, con una spesa mensile media che ammonta a circa il doppio. A questo si aggiunge la costante mancanza di beni di prima necessità, che sembra aver ormai stracciato il vecchio patto sociale chavista.

Rischio guerra civile?
“Se non volete che il Venezuela finisca in un bagno di sangue, in una guerra civile fratricida, per colpa dei fascisti, allora assicuriamo il miglior successo possibile, la più grande vittoria nella storia elettorale del nostro popolo”. Le parole di un comizio alla vigilia del voto del presidente Nicolas Maduro all’indomani delle elezioni riecheggiano come una promessa oltre che una minaccia. Sarebbero infatti almeno due le persone uccise negli scontri con la polizia, che avrebbe arrestato diversi manifestanti. Il governo avrebbe anche espulso il personale diplomatico di diversi paesi, tutti latinoamericani, accusati di interferire col processo elettorale. Si tratterebbe delle ambasciate di Argentina, Cile, Costa Rica, Perù, Panama, Repubblica Dominicana e Uruguay. E proprio dalla regione sono arrivate le reazioni più forti alle minacce di Maduro. Il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva, che raramente aveva criticato il leader venezuelano in passato, si era detto preoccupato per il preventivato “bagno di sangue”: “Se perdi, vai a casa e ti prepari a correre alle elezioni successive”. Tra le critiche che arrivano dal Sudamerica, spiccano anche quelle del presidente del Cile, Gabriel Boric, anch’egli di sinistra: “Il regime di Maduro deve capire che i risultati che pubblica sono difficili da credere […] Dal Cile non riconosceremo nessun risultato che non sia verificabile”. Tra i leader mondiali che invece si sono complimentati col leader venezuelano c’è soprattutto il presidente della Russia Vladimir Putin: “Ricordati che sarai sempre il benvenuto sul suolo russo”.

Una crisi senza fine?
Il Venezuela contemporaneo ha sempre fondato la propria economia sui giacimenti di petrolio scoperti un centinaio di anni fa: rappresentano la più grande riserva di “oro nero” al mondo e hanno portato il paese ad essere un petro-stato. Questa caratteristica ha fatto la fortuna e la miseria del Venezuela, che è passato dall’essere uno dei paesi più ricchi del Sudamerica ad essere il più povero. Ancor prima che l’industria petrolifera venisse nazionalizzata, il Venezuela soffriva del cosiddetto “male olandese”, caratteristica economica che colpisce quei paesi altamente dipendenti da una risorsa naturale e che trascurano gli altri settori, come accaduto in Venezuela a discapito di agricoltura e settore manifatturiero, più improntati nel garantire crescita e competitività. Con la nazionalizzazione della Petroleos de Venezuela SA voluta da Chavez, Caracas è diventata ancora più dipendente dalle esportazioni di petrolio, aumentandone la precarietà sui mercati finanziari. Col crollo del prezzo del petrolio – passato dai 100 dollari al barile del 2014 ai 30 del 2016 – il budget del governo venezuelano si è notevolmente contratto e la crisi economica si è sviluppata a effetto domino. Infatti, la mancanza di investimenti e di adeguata manutenzione ha fatto calare anche la produzione di petrolio, il PIL si è ridotto fino a sprofondare al -30% nel 2020 (per il 2024 la crescita è stimata intorno al 4%) e allo stesso tempo sono aumentati esponenzialmente il debito estero e l’inflazione, col picco dell’800% nel 2016. A questa situazione, ha contribuito negativamente l’emigrazione di quasi 8 milioni di venezuelani in meno di dieci anni: un’ondata migratoria che ha largamente privato il paese di manodopera qualificata ed istruita, e che è stata incentivata dalla deriva autoritaria accelerata con il governo di Maduro, che controlla ogni aspetto della vita pubblica e annichilisce il dissenso.

Commento
“A Caracas si sta consumando l’ultimo atto della gravissima deriva autoritaria del chavismo. Un presidente senza sostegno popolare vuole rimanere al potere di un Paese dilaniato dalla crisi economica e dalla diaspora che ha fatto partire un cittadino su quattro. La vera novità della protesta in difesa del candidato dell’opposizione Edmundo Gonzalez Urrutia è la partecipazione in forza dei ceti popolari, che fino a qualche anno fa erano il bastione e la ragion d’essere del chavismo. Senza quella base il regime può continuare a colpi di repressione ma difficilmente riuscirà a sostenersi nel tempo.”

ispionline.it/it/pubblicazione/il-venezuela-diviso-in-due-182084

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