Quello sui segni della presenza di Dio è un tema comune a tutte le religioni e anche a chi cerca di dare risposte, personali o comunitarie, piccole o grandi, al senso della presenza di Dio fra noi. Ho diversi amici non credenti e in alcuni di loro ammiro il grande rispetto e delicatezza nell’avvicinarsi al tema. In alcuni casi mostrano molta più sensibilità e intelligenza di alcuni cattolici, persi in una fede borghese oppure devozionistica, che tocca poco sia il cuore che la mente. Una signora, pochi giorni fa, parlando di un suo conoscente sostanzialmente razzista, mi ha detto con forza: “Padre non è vero quello che dice lei: non può essere razzista, perché dice sempre il rosario e va sempre a messa”. La signora ha dimenticato il monito di di Gesù: “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Non sono rosari e messe (utili solo se ci sono le opere cristiane che ne scaturiscono) ma l’amore per Dio e per gli altri a renderci credenti, come il Signore ci insegna.
Ritorniamo un attimo al brano di questa domenica, alla sua conclusione precisamente: “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro”. Se fossimo stati contemporanei di Gesù e autori di un Vangelo, forse, avremmo scritto molto di più. Invece il Vangelo è così sintetico e preciso. E’ ovvio che ‘l’interesse degli evangelisti non è la cronaca, né il reportage, ma altro, cioè: “questi segni sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Negli atteggiamenti devozionistici, non a caso, si corre da un santuario a un altro per … “vedere”. Ma non ci basta il Vangelo? E se non ci basta c’è qualche problema serio.
In un momento in cui le parole si sprecano, è un po’ difficile accettare l’essenzialità e la brevità del Vangelo. Troppe parole generano spesso mancanza di di significati profondi. Per questo abbiamo bisogno di “toccare con mano”, “provare praticamente” per convincerci della verità di un evento. Siamo certamente come Tommaso. Gesù ritorna ad apparire per lui, Tommaso, l’incredulo, colui che otto giorni prima aveva detto: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. E gli dice di toccarlo, nei segni più autentici ed emblematici del suo patire: le mani e il costato. Per questo Tommaso afferma: “mio Signore e mio Dio”.
In questo cammino Tommaso ci insegna che è legittimo dubitare, ma anche doveroso chiedere, ricercare, anelare a vedere il buon Dio. Agostino ci ricorda che il dubbio di Tommaso è stato causa di una importante beatitudine: “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” Ossia beati noi.
Ma questa beatitudine non ci toglie la fatica di ricercare, di dare e ridare significato alle parole, di scrutare i segni dei tempi, di scorgere la presenza di Dio nelle piccole come nelle grandi manifestazioni. Scriveva Edith Stein: «Dio fa tutto al momento giusto. Qualunque cosa faccia, non è mai il momento sbagliato, bensì accade proprio nell’attimo favorevole e capita per me nel momento giusto». Ma riusciamo a sottoscrivere questa affermazione sempre, nella vita personale o in quella sociale e globale? Oppure la Stein dice una cosa senza senso? E la nostra fede su cosa si fonda?
- Il Vangelo qui commentato è Gv 20, 19-31 (Domenica in Albis, II di Pasqua).
- Rocco D’Ambrosio, presbitero, docente PUG Roma, pres. Cercasi un fine, Cassano, Bari