Il trionfo di Trump e Netanyahu: la fine della soluzione a due Stati?, di Claudia De Martino

La netta vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane ha scosso il mondo intero, ma è stata accolta con sentimenti opposti soprattutto nel Medio Oriente, dove è risuonata come il colpo di grazia per i palestinesi. L’opinione di un cittadino gazawi, Abu Osama di Khan Younis, raccolta dai giornalisti della Reuters, riassume bene lo sgomento provato dai palestinesi: la vittoria di Trump rappresenterebbe una “nuova catastrofe nella storia del popolo palestinese” perché “nonostante tutta la distruzione, la morte e lo sfollamento sperimentati finora, il periodo che si apre sarà ancora più difficile e politicamente devastante”. Le aspettative su una mediazione americana per una risoluzione equa del conflitto sono nulle e i palestinesi guardano ai prossimi quattro anni in un’ottica di pura sopravvivenza, cercando di parare i colpi portati loro dal governo Netanyahu – il più a destra della storia di Israele – che da questo momento in poi si sentirà ancora più libero da gravosi vincoli esterni, come il richiamo al rispetto del diritto internazionale.
La notizia della rielezione di Trump a 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America ha, infatti, suscitato un fortissimo entusiasmo sia nell’entourage politico del primo ministro israeliano Netanyahu, che si è precipitato a complimentarsi con il nuovo presidente, sia nella maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, che, secondo un sondaggio del Mitvim Institute for Regional Foreign Policy, al 68 per cento considerava Trump il candidato più vicino a Israele e più favorevole ai suoi interessi, contro un risicato 14 per cento di sostenitori di Harris. Questo in netto contrasto con i loro correligionari americani, che invece esprimevano una netta preferenza per Harris (attestata al 79 per cento). La vittoria elettorale di Trump ha galvanizzato l’ala dei coloni, afferenti al partito dei Otzma Yehudit e del sionismo religioso, che, nella persona della deputata Simcha Rothman, ha aperto ufficialmente i lavori della commissione giustizia alla Knesset il 6 novembre ringraziando con una preghiera il successo di Trump. I coloni si erano infatti spesi molto per l’elezione del candidato repubblicano attraverso la campagna “Jvote”, che incoraggiava gli israeliani con doppia cittadinanza a votare per Trump, e questo nonostante le differenze esistenti tra la loro visione della necessità di una sovranità totale israeliana sulla Cisgiordania e una ricolonizzazione progressiva della Striscia di Gaza, e il “piano di pace del secolo” elaborato dall’Amministrazione Trump a fine mandato (2020).
Quest’ultimo è una delle poche iniziative di Trump su Israele che l’Amministrazione Biden abbia accantonato – insieme al boicottaggio dell’Unesco – ripetendo vanamente il mantra dei due Stati senza proporre alcuna alternativa percorribile alla proposta repubblicana, ma tenendo invece in piedi tutti gli altri pezzi dell’architettura trumpiana per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese: il lancio e l’estensione degli Accordi di Abramo, l’abbandono indefinito degli Accordi sul nucleare iraniano, il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan (ribattezzate Ramat Trump o Trump Heights nel 2019), la chiusura degli uffici dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) a Washington, lo spostamento dell’ambasciata israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme, il sabotaggio dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi,  per la sua collusione (di 12 dipendenti su 13mila) nell’attacco del 7 ottobre e la mancata revoca del Taylor Force Act (2018), che nominalmente proibisce a qualsiasi amministrazione americana la fornitura di aiuti economici all’Autorità Palestinese, accusata di finanziare il terrorismo attraverso il programma di sostegno ai detenuti, ai “martiri” e alle loro famiglie, informalmente denigrato come “Pay for Slay” (“paga per uccidere”). Ed è da qui che la nuova amministrazione Trump ripartirà per infliggere il colpo di grazia alla questione palestinese, risolvendo la guerra nei termini israeliani, riproponendo la “dottrina Pompeo”, che, definendo la Giudea e la Samaria come “territori disputati” e non “occupati”, di fatto legalizzava gli insediamenti israeliani come misure di controllo e gestione di un territorio senza alcun status definito.
L’apparente forte continuità esistente tra la politica filo-israeliana del ticket Biden-Harris e quella filo-coloni di Trump porta alcuni analisti a sostenere, a torto, che non vi sarebbero differenze fondamentali, se non in termini di narrativa, nella politica estera delle due amministrazioni. Marina Calculli, ricercatrice alla Columbia University, sostiene infatti che “Biden ha rimpiazzato il diritto internazionale con decreti presidenziali e Trump proseguirà su questa strada, solo in modo più aggressivo ed esplicito”. Tuttavia, gli effetti specifici della politica di Trump avranno conseguenze visibili, rapide e fatali sui conflitti in corso nella regione, ed in particolare in quello israelo-palestinese. Se infatti il Presidente repubblicano ha promesso di metter fine a tutte le guerre nel suo mandato, le sue soluzioni ready-made saranno imposte dall’alto da un’amministrazione blindata sul piano interno da una solida maggioranza al Congresso, che non desidera impegnare risorse vitali, né diplomatiche né militari, in Medio Oriente ma che aspira invece a far cessar i conflitti in corso con un colpo di bacchetta diplomatico, imponendo alle parti pragmatici rapporti di forza ed eludendo diritti e ragioni storiche.
Come ha ben sintetizzato Yisrael Ganz, capo del Consiglio di Yesha, ovvero dell’organizzazione che raccoglie le colonie in Cisgiordania, con la vittoria di Trump, l’annosa “questione dello Stato di Palestina è fuori discussione”. La sua vittoria rimuove ogni barriera verso l’annessione della famosa area C di Oslo (ovvero il 60 per cento della Cisgiordania non direttamente controllato dall’Autorità Nazionale Palestinese) ma apre anche ad altre potenziali “annessioni tattiche”, come quella di una buffer zone in Libano, ovvero una striscia di territorio pari o inferiore ai 20 chilometri richiesti da Israele fino al fiume Litani, e alla costruzione di un’area militare protetta nel nord della striscia di Gaza intorno al campo profughi di Jabalya, pari al 35 per cento del territorio della Striscia (un progetto noto come “Piano dei generali” o “Piano Eiland”). Trump potrebbe approvare i progetti militari israeliani in queste aree non su pressione del governo Netanyahu, dal quale sarebbe meno ricattabile dell’attuale amministrazione Biden, ma in considerazione dell’approvazione generale dell’operato di Israele nella regione, orientato a eliminare gruppi militari alleati all’Iran da e per conto degli Stati Uniti senza sollecitare un loro intervento militare diretto e, dunque, compiendo il “lavoro sporco” anche per Washington. Come sostiene Kyle Orton, analista esperto di Medio Oriente per la Henry Jackson Society: “In un mondo razionale, gli Stati Uniti cercherebbero di assicurare a Israele il tempo e le risorse per affrontare al meglio gli avamposti della Repubblica islamica a Gaza e in Libano: essi rappresentano delle minacce alla sicurezza e agli interessi americani, ed è come se un amico (Israele) si offrisse di risolvere il problema senza sacrificare una sola vita americana”.
In particolare, in Libano Trump potrebbe aspirare a un cessate il fuoco immediato sulla base delle garanzie di sicurezza israeliane, ovvero negoziando un ampio margine di manovra per l’aviazione israeliana (in modo simile a quanto avviene oggi in Siria) insieme a un più robusto mandato all’Unifil al confine, in cambio di un rapido piano di ricostruzione di Beirut a tutto favore delle comunità cristiane e sunnite. Tali misure potrebbero essere aggravate da altre, come la dismissione totale dell’Unrwa – bollata, sulla falsariga delle accuse avanzate dal governo israeliano, di essere un’”organizzazione terroristica” nonostante il suo ruolo di assistenza al 75 per cento della popolazione a Gaza –, nonché accompagnate da una sostanziale tolleranza verso la riforma giudiziaria fortemente voluta dal Likud, nuove esenzioni dalla leva agli ebrei ultraortodossi e la normalizzazione sull’accesso dei coloni al Monte del Tempio (Haram es-Sharif) a Gerusalemme.
Tuttavia, la conseguenza più allarmante è che le azioni della nuova amministrazione Trump potrebbero implicare la fine dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), sottofinanziata al punto da non poter più assicurare né la cooperazione con Israele in materia di sicurezza né servizi base alla sua popolazione. È allo studio, infatti, un progetto, avanzato da settori vicini al Likud e afferenti al Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs (Jfca), di sganciamento di Israele dagli Accordi di Parigi – il capitolo economico degli Accordi di Oslo – sulla base della denuncia di collusione dell’Anp con il terrorismo ma anche della fine di un’impalcatura di pace (Oslo) che ormai non ha più alcun senso di esistere, al fine di trattenere le tasse e i diritti doganali che adesso Gerusalemme raccoglie per conto dell’Anp. Nelle parole di Maurice Hirsch, direttore del Jfca, si tratterebbe solo di applicare una basilare regola economica, secondo cui “non si paga per un prodotto (ndr, la pace, la sicurezza) che non si ottiene in cambio”.
Tuttavia, è su Gaza che presumibilmente gli sforzi dell’amministrazione Trump si dovrebbero concentrare, e su cui maggiormente si giocherebbe la sua credibilità di “problem-solver” pragmatico ed efficace, quanto pionieristico e anti-ideologico. Il progetto bipartisan che delinea uno scenario per il dopoguerra nella Striscia di Gaza esiste già ed è stato elaborato dal Middle East American Dialogue, una conferenza a porte chiuse che ha visto riuniti tutti i maggiori attori regionali – ufficiali e leader dell’opposizione israeliani, deputati e senatori statunitensi bipartisan, rappresentanti dei maggiori Paesi arabi –, con la sola esclusione dei Palestinesi. Il progetto è quello di costituire una forte alleanza con i Paesi del Golfo per la ricostruzione della Striscia e la sua trasformazione in un “emirato palestinese”, saldamente controllato dall’alto da una nuova classe dirigente alternativa all’Anp. L’obiettivo è quello di assicurare l’impossibilità che Hamas, o un’altra qualsiasi forza alleata all’Asse della resistenza, possa riprendere il controllo della Striscia e simultaneamente ancorare i Paesi del Golfo in funzione anti-iraniana alla strategia di sicurezza americana anziché essere attratti verso l’area di influenza russa o cinese.
È probabile che Trump sposi il piano di pace elaborato dagli Emirati Arabi Uniti in accordo con Ron Dermer, ministro per gli Affari strategici del governo Netanyahu, che prevede il dispiegamento di una forza internazionale di interposizione con una forte componente emiratina nella Striscia dietro formale richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese, e la costituzione di un nuovo governo tecnico, separato ed alternativo all’Anp, a possibile guida di Mohammed Dahlan (fuoriuscito di al-Fatah oggi candidato indipendente), tale da assicurare una governance trasparente e politicamente leale ai Paesi donatori, tendenzialmente estranea alle regole di spartizione dell’Olp. L’orientamento su Gaza su cui la nuova Amministrazione Trump e gli Emirati Arabi Uniti convergono è la progressiva marginalizzazione dell’Anp, considerata un covo di lealisti della vecchia guardia, fedeli ad Abbas e a un desueto progetto di Stato-nazione, a favore di un passaggio di testimone a una nuova classe dirigente palestinese, più dinamica e aperta a nuove formule di compromesso, che non prevedano né il ritorno dei rifugiati né la costituzione di uno Stato con piena sovranità e confini ben delimitati, attualmente impossibile da realizzare. Se, fino a oggi, l’Amministrazione Biden aveva cercato di garantire all’Anp un ruolo chiave nella futura governance di Gaza, Trump sarà molto più diretto nell’accantonare questa possibilità e relegare l’Anp a una funzione secondaria, di agenzia d’appalto per la sicurezza interna nelle città palestinesi in Cisgiordania.
Il progetto nazionale palestinese risulterà completamente affossato. Non solo la Striscia di Gaza sarà governata da una nuova leadership scaturita e, dunque, propensa agli Accordi di Abramo, ma il diritto all’autodeterminazione palestinese si risolverà in un mero diritto all’esistenza e allo sviluppo, garantito da un accordo internazionale, all’interno di negoziati tra grandi potenze regionali che non terranno in conto le legittime aspirazioni del popolo palestinese, ovvero esattamente l’opposto di quanto Arafat ed al-Fatah avessero auspicato assumendo la guida dell’Olp (1969). Una volta destituita l’Unrwa che, per quanto disfunzionale, incarnava l’identità collettiva di un popolo e il legame ancestrale con una terra da cui i Palestinesi continuano periodicamente a essere cacciati, il conflitto israelo-palestinese potrebbe essere “normalizzato” e dunque superato, da Trump, riducendolo ad un’ottica binaria di legalità/illegalità applicata a tutti coloro che avrebbero titolo o meno di soggiornare in Israele e nei Territori autonomi palestinesi (titoli accordati da Israele), o appiattita sulla logica  terrorismo/antiterrorismo, in caso di episodi di opposizione violenta a tale dominio. In tale contesto, Israele riterrebbe sia il controllo del valico di Rafah, magari in cooperazione con l’Egitto, che il dominio del corridoio di Netzarim, che taglia in due in orizzontale la Striscia di Gaza, separandola ormai in due metà non comunicanti.
Molti sosterranno che questa visione suoni apocalittica rispetto alle legittime aspirazioni alla libertà palestinesi, alla domanda di giustizia espressa dagli studenti nei campus europei e americani, alle manifestazioni di solidarietà che hanno attraversato tutte le capitali arabe e di mezzo mondo per circa un anno, alla catastrofe umanitaria attualmente ancora in corso a Gaza, con le sue oltre 43mila vittime, ma presto si accorgeranno che gli elementi del puzzle erano già tutti lì predisposti e mancava solo l’esperta mano di un burattinaio per assemblarli. Questa potrebbe ora giungere dalla nuova leadership repubblicana americana, guidata da una sua spregiudicata formula magica (Make America Great Again) – contraria agli immigrati, alle influenze straniere, al multiculturalismo, alla globalizzazione, ai diritti delle donne e delle minoranze, opposta ai diritti in generale e in particolare a quello internazionale, considerato il più astratto tra tutti –, pronta ad assicurare a Israele il dominio sui palestinesi in cambio di ingenti vendite di armi e solide garanzie di sicurezza ai suoi alleati nel Golfo.

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