Il tempo della diplomazia pontificia, di Francesco Laureti

Dopo tanto viaggiare, padre Martino Martini è allo stremo delle forze. L’11 giugno 1659 giunge a Hangzhou, sua vecchia residenza, da cui era partito all’inizio del 1651, per rientrare in Europa, in seguito a una precettazione di santa obbedienza. «Con quale frutto della spedizione e con quale bene della Missione Cinese» non sa, ma non si è sottratto alla decisione dei superiori delle missioni cinesi della Compagnia di Gesù di mandare a Roma un procuratore che difendesse con risolutezza le buone ragioni dei gesuiti dinanzi alla Congregazione di Propaganda Fide. A esser messa in discussione è stata l’impostazione stessa dell’inculturazione promossa nell’ambito dell’evangelizzazione citra et ultra Gangem da figure di spicco come Alessandro Valignano e Matteo Ricci. Dopo aver posto rimedio alla “questione dei riti”, a stento sarebbe riuscito a vedere per l’ultima volta la Cina prima della sua morte nel 1661.
Nel contesto di una società occidentale profondamente secolarizzata, non è inverosimile che ai più sfuggano i motivi ispiratori e le logiche della diplomazia pontificia. Diplomazia che non fa mistero della sua missionesartoriale”, come ha ricordato tempo fa padre Antonio Spadaro, oggi Sottosegretario eletto del Dicastero Vaticano per la Cultura e l’Educazione, e sa operare attendendo pazientemente i tempi della semina. Nella consapevolezza che, secondo il principio ben illustrato nella Lettera Enciclica Lumen Fidei di Papa Francesco, «il tempo è sempre superiore allo spazio», poiché mentre lo «spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza». Dare priorità al tempo equivale a opporsi all’ostinazione contemporanea dell’attività socio-politica di «privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi». (Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 24 novembre 2013, 223)
Il processo che verrà qui tratteggiato trae le sue mosse dall’epoca dei viaggi compiuti da quella «generazione di giganti» (secondo la definizione dello storico George Dunne), tra cui padre Martini, che dischiude le porte dell’Estremo Oriente alla Chiesa cattolica. Nonostante il momento storico in cui approda in Cina non gli sorrida, a causa delle turbolenze conseguenti alla caduta della dinastia Ming e all’invasione dei mancesi dal Nord, padre Martini comprende che è dalla comprensione di quel dramma storico che deve avviare la sua opera, nello sforzo di porsi sullo stesso canale di comunicazione e sentirsi alla pari con la classe dirigente e il popolo cinese. Sollecitato dalle prime esperienze sul campo e dalle testimonianze di prima mano, scrive il suo De Bello Tartarico, che racconta le fasi di quella violenta transizione. A Pechino c’è padre Adamo Schall von Bell, che non tarderà a porsi al servizio dei nuovi padroni di Zhōngguó, l’Impero del Centro, mentre altri gesuiti rimarranno leali agli ultimi discendenti della dinastia Ming a Sud.
Forte delle sue competenze nelle arti militari, tanto da essere equiparato al rango di mandarino, Martini è fra i padri che operano nel Sud, ma, con l’ingresso dei tartari nella sua cittadella di Venxui, sarà presto costretto ad accettare i nuovi equilibri determinati dalla guerra. Sotto il nuovo regno instaurato dai mancesi, notevoli sono i progressi nell’attività missionaria e culturale del gesuita. Ne sono esempi emblematici la produzione di opere come il Trattato sull’Amicizia (suo unico scritto in cinese ad oggi nota), che si ispira al dialogo avuto con lo studioso Zhu Shi e tenta l’ardita operazione di avvicinare le tradizioni dell’umanesimo occidentale e cinese; la pubblicazione nel 1655 del Novus Atlas Sinensis, che verrà ritenuto per circa 200 anni la fonte verosimilmente più autorevole e completa nel panorama letterario europeo per lo studio della geografia dell’Impero cinese; la collaborazione a Pechino con padre Adamo Schall, direttore dell’Ufficio astronomico imperiale, incarico di massima rilevanza per assicurare il favore dell’imperatore nei confronti dei missionari.
Dopo la riflessione filosofica e analisi geografica, l’attività di elaborazione e divulgazione culturale di padre Martini si dedica ancora una volta alla storia con le Sinicae Historiae Decas Prima del 1658. Emulando lo stile liviano, l’opera offre una ricostruzione della storia cinese, fin dalle sue origini, dinastia per dinastia, attenendosi alle fonti cinesi disponibili, in particolare le cronologie redatte dagli uffici imperiali cinesi. Dei tre gruppi da 10 libri prospettati all’inizio, il gesuita riuscirà a scrivere solo la Decas Prima, la cui conclusione coincide con gli albori dell’era cristiana.
Incardinato in un’organica visione cristiana della storia, lo scritto suggerisce che la civiltà cinese possiede fin dalle origini una nozione di Dio e accentua il fil rouge che legherebbe da secoli la grandiosa epopea dell’Impero cinese alle vicende storiche del cristianesimo: accennando al regno dell’imperatore Ngyasus, Martini riferisce che egli «voleva essere chiamato Pingus, che significa “pacifico”» e poteva essere considerato «un segno della mirabile provvidenza di Dio il fatto che, nel tempo in cui venne sulla terra Cristo, il re veramente pacifico, pacifico fosse soprannominato anche l’imperatore della Cina».
Per il resto della sua vita, padre Martini viene in larga parte indotto a focalizzarsi sulla sfida posta dal Decreto di Propaganda Fide del 1645, al punto che deve rientrare a Roma e, su impulso dei suoi superiori romani, chiede di essere ascoltato pubblicando, nel frattempo, una Breve Relazione sul numero e la qualità dei cristiani in Cina. Il suo scopo primario è di fornire notizie obiettive ed efficaci sullo stato della cristianità nel Celeste Impero, ponendo rimedio alla cattiva reputazione dei suoi confratelli veicolata da un’informazione inadeguata. Immane è lo sforzo che viene richiesto a Martini, ma un successo l’esito della sua difesa dell’operato dei gesuiti nell’ambito della “questione dei riti”. Dopo la sua morte, ad Hangzhou viene sepolto il suo corpo, dove resta un simbolo delle interlocuzioni tra Santa Sede e Cina.
In apparenza protesi e concentrati su due spazi di esercizio dell’autorità non comunicanti, l’uno politico-civile e l’altro spiritual-religioso, in realtà Pechino e Santa Sede si sono dovuti confrontare, in tempi non sospetti, con rischi e possibilità derivanti da un delicato punto di contatto: è stata la questione dei rapporti tra episcopati locali e San Pietro a rianimare relazioni bilaterali tra le diplomazie cinese e pontificia. Per un certo lasso di tempo, nel secondo Novecento, è stata l’Associazione patriottica cattolica cinese, cui Pechino ha concesso poteri speciali di autonomia nei rapporti con lo “straniero”, a garantire un modus vivendi mutuamente vantaggioso. Pur tuttavia, come spiega Francesco Sisci in un articolo pubblicato su Limes nel 2018, nei primi anni Duemila, quando il governo cinese si è reso conto di non avere alcuna garanzia amministrativa sul suo territorio rispetto alle attività di Santa Romana Chiesa, si è convinto anche di aver motivo di temere dell’ammissione del principio di autorità del Papa in Cina.
Come sottolinea il Card. Parolin, che auspica nell’intervista l’apertura di un ufficio stabile di collegamento della Santa Sede in Cina, il futuro delle relazioni tra Pechino e San Pietro è rispecchiato dalle sorti di un accordo riservato, in quanto ancora non approvato in via definitiva, ma bisognoso di essere puntellato, per via delle incomprensioni sorte dopo la stipula avvenuta il 22 settembre 2018. A conferma del fatto che la Santa Sede resta propensa a tendere la mano, negli ultimi mesi Papa Francesco ha rivolto un saluto al popolo cinese durante il suo recente viaggio apostolico in Mongolia e inviato a Pechino come suo alto rappresentante il Card. Matteo Zuppi nell’ambito di una storica visita, che si inserisce in un più ampio impegno di mediazione tra pesi massimi dell’ordine mondiale, compresi Stati Uniti e Russia. Ma resta pur sempre un processo di lungo periodo, che continua a seguire quelle vie di pace e dialogo tra maestose tradizioni culturali indicate da una «generazione di giganti». Nel segno dello “spes contra spem”.

https://www.dissipatio.it/il-tempo-della-diplomazia-pontificia/

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