Almeno fosse un vaso di coccio tra i vasi di ferro. Le incrinature ormai evidenti sulla superficie lo rendono ancora più fragile e i tentativi in corso per ripararle, o almeno per non aggravare la profondità delle crepe, procedono a stento. Vedi l’andamento lento del Consiglio andato in scena a Bruxelles: tutto rimandato a giugno o comunque più in là.
L’Europa è un sentimento, l’ipotesi di una casa comune con una sola bandiera simbolica sul tetto e con le fondamenta cementate dagli stessi valori.
Stessa vocazione per la democrazia e la giustizia sociale: il più grande contenitore (450 milioni di abitanti, contro i 350 degli Usa) del più ardito esperimento di comunione tra diversi che sia mai stato tentato. Il problema è che, al di là della sfera ideale e della convenienza pratica, quell’Unione politica e economica tra 27 Stati sta andando in pezzi. E sta scegliendo di farlo nel momento peggiore: disunirsi fino al rischio estremo, ma ormai nemmeno così improbabile, di dissolversi.
L’acceleratore di questa frantumazione è il diverso corso mondiale imposto da Donald Trump. In due mesi di presidenza degli Stati Uniti, ha riportato la Russia al centro della scena, concesso a Netanyahu di riprendere a bombardare quel che resta di Gaza, imposto dazi commerciali che dal 2 aprile manderanno in difficoltà nazioni vassalle e nazioni nemiche, preparato il terreno per la fine della guerra in Ucraina con la fine dell’Ucraina libera e indipendente. Di fronte a una tale forza d’urto, invece di compattarsi come una superpotenza che chiede ascolto e rispetto, l’Europa si sta moltiplicando in tante Europe, sottese da un’altra forza sempre più dominante: quella centrifuga dei nazionalismi, il carburante, come ha appena detto in tivù Roberto Benigni, di tutte le guerre.
La causa scatenante del repentino collasso dell’Unione è appunto la questione ucraina. Come riportato da Marco Imarisio su questo giornale, Sergei Markov, ex consigliere del Cremlino per la politica estera, ha reso esplicita l’evidenza: «Putin e Trump parlano di soluzione bilaterale, come a dire che spetta a loro e solo a loro decidere cosa sarà di Kiev. L’Europa viene definitivamente messa in disparte». Ed è proprio su quest’ultimo fronte, su questa plateale esclusione da una questione che da tre anni ci vede più di ogni altro impegnati nella difesa di una sovranità violata, che il vaso di coccio ha accelerato le procedure di sbriciolamento. L’ammonimento di Mario Draghi sulla necessità di investire nella nostra sicurezza, messa in discussione dalla svolta di Trump e dal rinfocolato ardore di Putin, è finito nell’imbuto di un dibattito che non decolla.
Il piano ReArmEurope pensato da Ursula von der Leyen, con quei fantomatici 800 miliardi di investimento, sta producendo una quantità di distinguo più che comprensibili ma non altrettanto limpidi nelle intenzioni che li muovono. Ci sono partiti e nazioni, anche in Italia, legati da fili più o meno visibili alle volontà del Cremlino. Ci sono partiti e nazioni, anche in l’Italia, che puntano alla missione impossibile di non separare la Ue dagli Usa, quando proprio gli Usa considerano e quindi trattano già la Ue come un soggetto politico ininfluente. Ci sono singole spinte in avanti, da Francia e Regno Unito (che tra l’altro è per via della Brexit un separato in casa), che offrono l’ombrello nucleare di cui, uniche nel continente, dispongono, in cambio di una leadership che nessuno degli altri membri dell’Unione sembra incline a concedere loro. Ci sono i distinguo, per niente sottili, tra federazione e confederazione, con la nostra premier Giorgia Meloni in avanscoperta a premere sulla seconda opzione, quella cioè che prevede un’Europa come un semplice contenitore di Stati sovrani e come tali legittimati a decidere sulla maggior parte delle materie (ci sarebbe il tema del Patto di stabilità e del nostro strabordante debito pubblico, ma non pare al momento questione sufficientemente rilevante).
Ancora Draghi, dalla sala Koch di Palazzo Madama, distrattamente ascoltato: «Gli spazi di bilancio non permetteranno ad alcuni Paesi significative espansioni del deficit, né sono pensabili contrazioni nella spesa sociale e sanitaria: sarebbe non solo un errore politico, ma soprattutto la negazione di quella solidarietà che è parte dell’identità europea. Per convincere l’Unione a scorporare la spesa militare dal patto di Stabilità c’è voluta l’umiliazione di Volodymyr Zelensky nello Studio Ovale e in mondovisione. L’unica strada è il ricorso a debito comune».
Ma l’impressione è che sia proprio la parola «comune» che rischia di finire fuoricorso. E con lei quell’idea di Europa, che ancora Benigni su Rai1 ha provato a difendere con passione travolgente («il più emozionante colpo di scena della storia») da chi non crede più, o non ha mai davvero creduto, al sogno nato sulle ceneri della distruzione del nazifascismo. C’è un altro sogno, chiamiamolo così, che avanza: la scomparsa dell’Unione, sostituita da tanti atolli che però non formano un arcipelago. È la geografia di un nuovo tipo di mondo, agognata da predatori affamati come Cina, Russia, Turchia, e anche la vecchia cara America. Ventotene chi, cosa?
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