Il senso della visita-lampo di Giorgia Meloni negli Stati Uniti, di Andrea Lavazza

La brevissima visita a sorpresa di Giorgia Meloni al quartier generale del presidente americano entrante, a poche ore dall’arrivo in Italia del presidente uscente, e a due settimane dal passaggio di consegne tra i due, è stato un esercizio di alto equilibrismo diplomatico, i cui frutti si vedranno sul medio periodo. Bisognava comunque salvare le apparenze, anche se per quattro anni non ci si dovrà più preoccupare dei democratici Usa, nell’urgenza di fare un passo in avanti nel caso di Cecilia Sala. Lo stretto riserbo che ha accompagnato il colloquio di 90 minuti fra la nostra premier e Donald Trump si giustifica in questa chiave – la famiglia della giornalista detenuta senza motivo in Iran ha chiesto il silenzio stampa – e lascia aperte le più fantasiose interpretazioni. L’unica indiscrezione, rilanciata dall’agenzia di stampa Bloomberg, solitamente poco avvezza a scoop inventati, riguarda un potenziale accordo con la società SpaceX di Elon Musk per una fornitura di servizi di comunicazione ad alta sicurezza dal valore di 1,5 miliardi.
La discussione in casa nostra è subito divampata su questa circostanza, smentita dal governo, mancando probabilmente il punto essenziale del più vasto scenario di politica estera che il blitz di Meloni a Mar-a-Lago, Florida, solleva. Che tipo di relazione preventiva si sta costruendo con il campione dell’imprevedibilità e della disruption (la distruzione creativa) che preoccupa gran parte delle cancellerie europee? Si è trattato del secondo incontro tra il capo dell’esecutivo e il tycoon dopo il faccia a faccia propiziato dalla cerimonia a Parigi per la riapertura della cattedrale di Notre-Dame. Di certo, Trump sembra apprezzare molto la sua interlocutrice, cui non ha fatto mancare aperti elogi in chiave di guida continentale.
Il prossimo inquilino della Casa Bianca si fida molto del suo intuito e della sintonia personale che si instaura con i suoi omologhi, al di là dei dossier politici che stanno sul tavolo. E questo potrebbe spiegare la convergenza con una leader che ha affinità ideologiche, ma sui principali punti politici all’ordine del giorno non sembrerebbe completamente allineata ai programmi annunciati dalla nuova Amministrazione Usa. Sulla guerra in Ucraina, la linea del fermo sostegno a Kiev, rafforzato dalla Commissione Ue in cui siede Raffaele Fitto, potrebbe entrare in contrasto con la volontà americana di ridurre il sostegno a Zelensky e chiudere il conflitto con un compromesso territoriale. Per quanto riguarda la Nato, l’Italia è tra i contributori meno generosi e difficilmente potrà o vorrà aumentare la quota di Pil destinata alla spesa militare. I rapporti commerciali con l’Europa si annunciano un tema caldo e critico, con Trump pronto a ripetere che “dazi” è la parola più bella del vocabolario, mentre, in base ai Trattati, gli Stati membri della Ue non possono concludere accordi commerciali bilaterali né modificare le politiche doganali o tariffarie già stabilite a livello comunitario. Come a dire, Roma non ha margini di manovra, e Washington dovrà comunque parlare con Bruxelles.
Non mancano intese di principio sulla gestione dei flussi migratori, che entrambi vogliono ridurre, né su scenari geostrategici di largo respiro, oltre ovviamente a prospettive ideali e culturali che però devono spesso lasciare posto agli interessi nazionali più immediati e concreti. Resta così la vicenda di Sala, confinata in una cella di sicurezza nel carcere di Evin, dal quale Meloni, meritoriamente, vuole riportarla in Italia al più presto. Ma anche qui le cose sono complicate. Vorranno gli Usa cedere sul presunto “ingegnere del terrore” Mohammad Abedini Najafabadi, fatto arrestare a Roma, per permettere di sbloccare il ricatto di Teheran? L’Italia deve muoversi con cautela perché, al fine di ottenere la liberazione della nostra giornalista, difficilmente si può pensare di rilasciare il ricercato dalle autorità americane senza il loro benestare. Sarebbe una mossa alla Bettino Craxi nella crisi di Sigonella di fronte all’allora presidente Reagan.
Nel 1985 oggetto del contendere era la mente del dirottamento della nave “Achille Lauro”, un palestinese (non consegnato agli alleati che lo reclamavano) più pericoloso di Abedini, ma non esponente, come quest’ultimo, di uno Stato che minaccia concretamente la sicurezza di Israele e degli Usa. Alla fine, è sperabile un compromesso che nella triangolazione consenta un lieto fine per l’involontario ostaggio italiano. Il punto centrale riguarda tuttavia come Palazzo Chigi stia orientando (anche con iniziative non concordate con gli alleati di maggioranza) alleanze e decisioni internazionali alla luce dell’asse sempre più stretto con il 47° presidente statunitense.
Ci sarà un riassetto in termini di relazioni europee? Cambierà il ruolo e il posizionamento del Paese nelle crisi belliche più gravi non distanti dai nostri confini? Domande cruciali che chiedono una risposta meditata e condivisa.

avvenire.it/opinioni/pagine/relazioni-preventive

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