Il Presepe e la pietà popolare, di Antonio Musca

Il Natale è per ciascuno di noi un ricordo carico di tante memorie, di tanti sapori dell’infanzia e ci consegna un clima che ci avvolge in sentimenti di amore, accoglienza e perdono. Essi si inseriscono a pieno titolo in quella che la Chiesa chiama “pietà popolare”: La locuzione “pietà popolare” designa qui le diverse manifestazioni cultuali di carattere privato o comunitario che, nell’ambito della fede cristiana, si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio di un popolo o di una etnia e della sua cultura. La pietà popolare, ritenuta giustamente un «vero tesoro del popolo di Dio», «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione»[…]. Nella pietà popolare devono percepirsi: l’afflato biblico, essendo improponibile una preghiera cristiana senza riferimento diretto o indiretto alla pagina biblica; l’afflato liturgico, dal momento che dispone e fa eco ai misteri celebrati nelle azioni liturgiche; l’afflato ecumenico, ossia la considerazione di sensibilità e tradizioni cristiane diverse, senza per questo giungere a inibizioni inopportune; l’afflato antropologico, che si esprime sia nel conservare simboli ed espressioni significative per un dato popolo evitando tuttavia l’arcaismo privo di senso, sia nello sforzo di interloquire con sensibilità odierne.

Vogliamo percorrere questo breve ma intenso viaggio sul significato di una delle espressioni natalizie della “pietà popolare”, il presepe, ripercorrendo tappe significative che ci serviranno a comprendere meglio alcune piccole realtà della presenza e dell’influsso del cristianesimo nella nostra cultura italiana. Il termine Presepe deriva dal latino praesepium o praesaepe: greppia, mangiatoria, ma anche recinto chiuso dove venivano custoditi ovini e caprini; il termine è composto da prae (innanzi) e saepes (recinto), ovvero luogo che ha davanti un recinto. Con il termine presepe, oggi si intende la descrizione scenografica dell’evento di Betlemme tramandato dall’evangelista Luca (cfr. Lc 2,1-7) con l’aggiunta di elementi narrati dall’evangelista Matteo (cfr. Mt 2,1-12), lo specchio di quella società che l’ha prodotto e consegnato a noi. Vi è una folta tradizione culturale, tanto che in molti momenti della storia del presepe esso diviene addirittura moda e allestimento scenico, mettendo sullo sfondo gli aspetti religiosi al fine di esaltare la fastosità dello spettacolo, l’invenzione e il gusto delle immagini.

La più antica raffigurazione della Vergine con Gesù Bambino è raffigurata nelle Catacombe di Priscilla sulla via Salaria a Roma, dipinta da un ignoto artista del III secolo all’interno di un arcosolio del II secolo. La tradizione pittorica di raffigurare la Natività fu seguita poi dalla rappresentazione tridimensionale, allestita in occasione delle festività natalizie, ciò che comunemente si intende oggi con il termine presepe. Un’usanza, all’inizio prevalentemente italiana, ebbe origine all’epoca di San Francesco d’Assisi, che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione della Natività, dopo aver ottenuto l’autorizzazione da papa Onorio III. Francesco era tornato da poco, nel 1220, dalla Palestina. Fu colpito dalla visita a Betlemme e volle rievocare la scena della Natività in un luogo, Greccio, che trovava tanto simile alla città palestinese. Oggi, per noi cristiani, credo in ogni casa, in ogni piazza, in ogni parrocchia, negli ospedali, nelle scuole (forse), nelle carceri, ognuno con la sua fantasia cerca di realizzare il proprio presepe perché, come ci ricorda Papa Francesco nella lettera Apostolica Admirabile signum, esso «suscita sempre stupore e meraviglia», potremmo noi aggiungere, anche dopo moltissimi secoli. Papa Francesco, sempre nella lettera racchiude con questa frase il senso di questo evento: «il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura».

Ognuno, con la propria fantasia, cerca di rendere quel momento originale e reale adattandolo alla sua vita. In ogni presepe è presente il cielo, carico di tante stelle, arricchito da tante lucine accese, quelle stelle che spesso vengono contemplate dagli esseri umani e non solo in occasione della tradizionale festa agostana di San Lorenzo. Spesso alle stesse vengono poste tante domande ed a volte ci si affida anche un desiderio. Cerchiamo sempre nelle nostre competenze, di costruire con la carta roccia o la carta pesta case sparse, montagne e svariati scenari. Colmo di personaggi, uomini e donne di buona volontà, ma allo stesso tempo semplici che si sono lasciati avvolgere dal mistero della fede, senza mai indietreggiare di fronte ad un evento del genere, capaci di avere quella forza di mostrare stupore e meraviglia di fronte a Dio, il presepe invita alla sorpresa, esperienza che la cultura dominante odierna, con il suo ossessivo desiderio di controllo, ritiene addirittura qualcosa da cui è necessario difendersi. Guardare alla Natività, la Nascita del Signore, che avviene, secondo Luca, nel luogo destinato agli animali (cfr. Lc 2,6-7) e se ne diffonde la notizia attraverso una stella (cfr. Mt 2,2.9), fa entrare in un tempo davvero diverso da quello attuale in cui ci si affida a dei post sui più svariati social per dare diffusione di tutto ciò che ci accade. La nascita in quella grotta, in quella mangiatoia consente di vivere qualcosa di bello, di emozionante, dove tutti corrono ed arrivano per contemplare la nascita di quel Bambino, consentendo a quel luogo di diventare l’incontro vero tra la luce e le tenebre che attualizza l’antica profezia di Isaia: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te» (Is 60,1-2). Una figura molto bella, carica di tanta luce e gioia è l’Angelo, l’annunciatore, il portatore di un messaggio strepitoso. Spesso noi oggi non riusciamo a portare liete notizie, non siamo più il mondo della gioia poiché privi di quel sentimento di trasmissione vero. Preferiamo essere il mondo della notte: pensiamo alla notte dei giovani, alla notte della guerra, alla notte del terrorismo, alla notte della criminalità mafioso-massonica, alla notte delle “terre dei fuochi”, alla notte dei femminicidi, alla notte delle tratte degli esseri umani, alla notte dello sfruttamento del creato. Avvolti dal fascino della bellezza, avvolti dalle luci, si odono le pecore che belano, ma non siamo soli, ci sono con noi “loro” i grandi protagonisti, i personaggi della Sacra Famiglia: Gesù Bambino, posto nella mangiatoia la notte di Natale, Maria e San Giuseppe. Di Gesù, Christian Bobin dice: «Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno. Lui lavora i cuori, diversi e più duri di legno». Di Giuseppe, Papa Francesco afferma: «Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine».
Di Maria, il Concilio Vaticano II insegna che la Chiesa in lei: «ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione, ed in lei contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa desidera e spera di essere nella sua interezza». A proposito di tale ammirazione e desiderio verso Maria ci facciamo aiutare da Juan Esquerda Bifet, che afferma: «le caratteristiche fondamentali di questa devozione [incontro] si possono riassumere cosi: – Conoscerla, cioè, approfondire il mistero di Cristo che, nato da lei, l’associa all’opera redentrice e riconoscere il lei il frutto della redenzione (Lumen gentium 65); – Amarla, cioè, rallegrarsi con lei “con affetto filiale” (Lumen gentium 53) per i doni ricevuti da Dio e manifestare quest’amore nella relazione personale con lei e nella dedizione come lei e con lei a Cristo e ai suoi piani di salvezza; – Imitarla in tutte le sue virtù e, in modo speciale, in quella che ne è la radice: la sua fedeltà alla Parola, alla volontà di Dio, all’azione dello Spirito Santo (Lumen gentium 64-67); – Invocarla, pregando, nella comunione dei santi, gli uni per gli altri (alla luce della dottrina paolina) e ricordando la funzione speciale di Maria nell’opera della redenzione: la sua maternità si rivela soprattutto nella preghiera di intercessione, piena di affetto e di presenza materna (Lumen gentium 66); – Celebrarla, cioè, celebrare il mistero di Cristo e la sua opera salvifica in Maria, che è il frutto più sublime della sua redenzione (Sacrosanctum concilium 103). La celebrazione dei misteri di Cristo è sempre “memoria” e “fare presente” (anámnesis), “invocazione” e azione dello Spirito (epíclesis), comunicazione della vita divina da parte di Dio Amore (comunione). Nelle feste mariane (per esempio, l’Immacolata e l’Assunzione) si celebra il trionfo di Cristo, morto e risorto, sul peccato e sulla morte (Marialis cultus 16)». Accanto al Bambin Gesù vengono posti anche due animali: un bue ed un asino. Il bue e l’asino sono animali che fanno parte dell’iconografia, ma anche della storia. Nella Terra Santa, tali animali accompagnavano la vita quotidiana di varie famiglie popolane, dove spesso l’asino veniva utilizzato per la cavalcatura (molto più nobile il cavallo destinato solo alle persone più abbienti) ed il bue per i lavori nei campi. L’immagine del presepe con il bue e l’asinello ci giunge dal vangelo apocrifo dello pseudoMatteo (respinto ufficialmente dalla Chiesa nel 325 d.C.) in cui si legge: «Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla, ponendo il bambino nella mangiatoia: ed il bue e l’asino l’adorarono» (14,1). L’autore del vangelo apocrifo interpreta due profezie dell’Antico Testamento.

Una del profeta Abacuc: «Signore, ho ascoltato il tuo annuncio, Signore, ho avuto timore e rispetto della tua opera. Nel corso degli anni falla rivivere, falla conoscere nel corso degli anni/in mezzo a due età» (Ab 3,2). L’altra del profeta Isaia, per il quale mentre il “bue e l’asino” sanno riconoscere perfettamente chi è il loro “padrone”, all’arrivo del Messia Ebraico, il Popolo Israelita non riconoscerà che lui sarà la guida:
«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Is 1,3). Così, da questa interpretazione dell’apocrifo, nasce la tradizione di collocare nel luogo della nascita di Gesù, un bue e un asino. Il bue, rappresenta l’immagine di forza, di calma e di bontà, raffigura la potenza dell’obbedienza che si realizza nel lavoro e nel sacrificio: magari l’umanità avesse quella potenza tale per obbedire alla volontà del Signore sempre. L’asino, simbolo di sapienza, rappresenta il popolo cristiano che si converte alla vera Sapienza e si sottomette alla nuova Legge, e chiedere la grazia di essere noi sempre convertiti all’amore del Signore. Davanti alla grotta sostano con grande devozione e silenzio i pastori chiamati dall’Angelo. Per questa ragione essi sono immagine della Chiesa pellegrina in questa Gerusalemme terrena guidati dalla stella, diretti verso il nostro Salvatore; ed immagine degli stessi pastori della Chiesa, che dalla Pasqua risalgono fino al Natale per cercare il mistero della verità del Risorto nella sua carne umana. Uno degli aspetti più significativi e profondi della pietà popolare è il pellegrinaggio, segno della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi” (Sal 1,1).

Il pellegrinaggio esprime un uomo/donna che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino appartiene non solo alla Bibbia ma all’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori. Il tema del viaggio è uno dei miti letterari più presenti e ricorrenti, dall’Ulisse omerico all’inquieto cuore di Agostino o all’Ulisse di Joyce, la vita è la strada dell’uomo navigante nel mare del tempo. Il pellegrinaggio è il segno di coloro che si mettono in cammino e non fanno altro che arrivare a destinazione e posare lo sguardo su Colui o Colei che salva. Cito ciò che la Quinta Conferenza Generale dell’Episcopato Latino – Americano e dei Caraibi ci suggeriscono: «lo sguardo del pellegrino si posa su di un’immagine che rappresenta la tenerezza e la vicinanza di Dio. L’amore si ferma, contempla il mistero, lo gusta in silenzio. Si commuove anche, rovesciando tutta la carica del suo dolore e dei segni. La supplica sincera, che fluisce fiduciosamente, è la migliore espressione di un cuore che ha rinunciato all’autosufficienza, riconoscendo che da solo non può niente. Un breve istante condensa una viva esperienza spirituale». Mentre Papa Francesco ci ricorda che «i Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr. Mt 2,1-12)». I magi venuti dal lontano da Oriente: la loro generosità si manifesta nei doni che consegnano al Divino infante, oro, incenso e mirra. L’oro rappresenta la Carità, lo splendore della giustizia e quindi il sacro potere dei Re; rendono omaggio alla regalità di Cristo. L’incenso simboleggia la virtù della Fede e lo spirito di adorazione tributati al Divino infante e quindi rende omaggio alla nascosta divinità di Gesù. La mirra, infine, erba amara che veniva usata per seppellire i morti, rende omaggio all’umanità di Gesù: simboleggia il sacrificio penitenziale dovuto Dio in espiazione delle colpe e l’obbedienza senza riserve ai decreti della Provvidenza. Il presepe è molto più di una tradizione ripetuta. È un esercizio di bellezza, di ingegno, di creatività e di tradizione al tempo stesso. È soprattutto la scena della più grande sorpresa di Dio al mondo ed è uno specchio onesto dell’umanità di allora e di oggi.

Il Natale rimane perciò la festa di ogni uomo/donna, come ebbe a dire san Giovanni Paolo II nel suo primo messaggio in occasione di questa solennità: «Natale è la festa dell’uomo. Nasce l’Uomo. Uno dei miliardi di uomini che sono nati, nascono e nasceranno sulla terra. L’uomo, un elemento componente della grande statistica. Non a caso Gesù è venuto al mondo nel periodo del censimento; quando un imperatore romano voleva sapere quanti sudditi contasse il suo paese. L’uomo, oggetto del calcolo, considerato sotto la categoria della quantità; uno fra miliardi. E nello stesso tempo, uno, unico e irripetibile. Se noi celebriamo così solennemente la nascita di Gesù, lo facciamo per testimoniare che ogni uomo è qualcuno, unico e irripetibile. Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni umane, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all’uomo che egli possa nascere, esistere e operare come un unico e irripetibile, allora tutto ciò glielo assicura Iddio. Per lui e di fronte a lui, l’uomo è sempre unico e irripetibile; qualcuno eternamente ideato ed eternamente prescelto; qualcuno chiamato e denominato con il proprio nome».

 

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