La politica cinese in Africa suscita da sempre grande interesse a livello internazionale, non solo per la portata degli investimenti nel continente, ma anche e soprattutto per la propria determinazione a ricusare ogni interferenza negli affari interni dei Paesi con cui intrattiene relazioni diplomatiche. In effetti, questo della “non interferenza” trova posto nei cinque principi della cosiddetta “coesistenza pacifica” (heping gongchu wuxian yuanze) promossa dalle autorità di Pechino: rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale; non aggressione; non interferenza negli affari interni; uguaglianza e beneficio reciproco; coesistenza pacifica.
Sulla base di questi principi Pechino ha instaurato proficue relazioni e avviato scambi commerciali, economici, scientifici, tecnologici, culturali e di cooperazione con i Paesi africani. Questi principi hanno rappresentato la base del modus operandi della Cina popolare (Rpc) che si è manifestato in particolare nella erogazione di aiuti economici e tecnici senza condizionamenti politici (bu fujia zhengzhi tiaojian), favorendo così l’emergere di un “modello Cina” (Zhongguo moshi). Sebbene, come spesso accade, questo impianto di soft power sia stato visto con sospetto da parte di non poche cancellerie occidentali che in esso hanno colto una forma mascherata di neocolonialismo, è indubbio che soprattutto il principio della “non interferenza negli affari interni” (huxiang bu ganshe neizheng) di altri Stati – progettato per riflettere la solidarietà con gli stati postcoloniali – ha riscosso un notevole successo nel continente africano.
A partire dagli anni ‘90, vale a dire dall’inizio del periodo post-Tiananmen, quando il governo di Pechino, attraverso una politica estera all’insegna della moderazione, diede un forte impulso alla cooperazione internazionale, i governi africani si rivelarono molto collaborativi. Da rilevare che, in forza dei suddetti principi, la Cina finora si è sempre impegnata a non esportare il proprio modello di sviluppo. Un concetto ben espresso il 25 ottobre del 2022 da Sun Yeli, attuale ministro della cultura e del turismo e vicecapo del dipartimento della pubblicità del Partito comunista cinese. In una conferenza stampa a Pechino egli dichiarò che la Cina non importerà il modello di sviluppo di altre nazioni e si opporrà fermamente all’imposizione dei propri modelli da parte di altre nazioni. Sun poi spiegò anche che «se la comunità globale è disposta a imparare o emulare l’esperienza e le pratiche della Cina, apriremo il nostro cuore e condivideremo in modo obiettivo. Nel frattempo, impareremo, faremo ricerche e prenderemo in prestito esperienze da altre nazioni».
Tuttavia, qualcosa di nuovo bolle in pentola, per così dire, e non da oggi. Infatti, il Partito comunista cinese (Pcc) ha intensificato la formazione di funzionari di partito e di governo africani come parte integrante del «nuovo modello di relazioni tra partiti» proposto già nel 2017 dal presidente cinese e segretario generale del Pcc Xi Jinping, in particolare nel Sud del mondo.
Un esempio emblematico di questo nuovo indirizzo è stata l’inaugurazione, il 22 febbraio del 2022, del primo corso della Mwalimu Julius Nyerere Leadership School di Kibaha, in Tanzania. In quella circostanza Xi Jinping ha rivolto un video messaggio nel quale ha parlato dei «grandi cambiamenti mai visti in un secolo» e della «quanto mai urgente necessità che la Cina e i Paesi africani rafforzino la solidarietà, lo sviluppo comune e lo scambio di esperienze cinesi e la comprensione reciproca nella governance». Questo istituto di formazione, intitolato al padre fondatore della moderna Tanzania, è un progetto congiunto del Pcc e di sei movimenti di liberazione arrivati al potere nell’Africa meridionale: il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla), il Fronte per la liberazione del Mozambico (Frelimo), l’Organizzazione popolare dell’Africa Sud-Occidentale (Swapo) della Namibia, il Chama Cha Mapinduzi (Ccm, o Partito rivoluzionario) della Tanzania, l’African national congress (Anc) del Sud Africa e l’Unione nazionale africana dello Zimbabwe – Fronte patriottico (Zanu-Pf).
Questi partiti fanno parte di una coalizione internazionale denominata Former liberation movements of Southern Africa (Flmsa), che ha il compito di seguire e analizzare le tendenze geostrategiche, le sfide nazionali e globali impegnando i propri membri a fornire reciprocamente supporto all’interno dell’organismo. L’organizzazione è una riproposizione dell’alleanza Frontline States (Fls), una coalizione libera di Paesi africani che dagli anni ‘60 ai primi anni ‘90 si impegnò a porre fine alla segregazione razziale in Sud Africa e nell’Africa sudoccidentale (oggi Namibia) e al governo della minoranza bianca in Rhodesia (oggi Zimbabwe) fino al 1980. Gli Fls includevano Angola, Botswana, Lesotho, Mozambico (dal 1975), Tanzania, Zambia e Zimbabwe (dal 1980). Gli Fls si sciolsero dopo che Nelson Mandela divenne presidente del Sud Africa nel 1994.
La Cina durante gli anni della guerra fredda fu un sostenitore ideologico e militare dei sei movimenti di liberazione africani ed è attualmente l’unico partner esterno della Flmsa. Da osservare che la Nyerere School è il primo istituto ad essere modellato sullo schema del Central party school del Partito comunista cinese, che forma i quadri e i leader più importanti dell’impero del dragone. È anche la prima del suo genere a soddisfare le esigenze di più partiti politici africani. Questa scuola è parallela al China-Africa Institute, un’iniziativa continentale del Pcc per formare leader di partito e di governo africani. L’istituto, avviato nel 2019, ha sede presso la Chinese academy of Social sciences di Pechino e l’African union (Au) di Addis Abeba. La governance e la formazione delle nuove classi dirigenti africane avvengono anche a livello nazionale, come dimostra la ristrutturazione della Herbert Chitepo school of ideology, la scuola del partito al potere nella ex Rhodesia, lo Zimbabwe african national union-patriotic front (Zanu-Pf), completata nel 2023.
Molto interessante è anche la collaborazione tra la National academy of governance (Cag) cinese e alcuni Paesi come Algeria, Etiopia, Kenya e Sud Africa le cui accademie di governance mantengono partnership formative annuali con la Cag. Inoltre, le istituzioni governative cinesi gestiscono anche programmi in Africa (e nel Sud del mondo in generale) sulla «condivisione dell’esperienza di governance nel governo degli affari di Stato» (fen xiang zhiguo li zheng jin yang) che rispecchiano le iniziative del Pcc. Questo indirizzo formativo proposto da Pechino pone l’accento sulla supremazia del partito sullo Stato e sul governo, un concetto che è comunque in antitesi con il quadro democratico multipartitico richiesto dalla maggior parte delle costituzioni africane e dalle convenzioni dell’Unione africana (Ua). Va infatti rilevato che nonostante i benefici impressi dagli investimenti cinesi in Africa, il modello politico di Pechino non pare essere qualcosa a cui la maggioranza dei cittadini africani aspira. Stando ad un sondaggio di Afrobarometer, l’80 per cento degli intervistati rifiuta l’idea del monopartitismo.
Di contro, come sostengono molti studiosi africani, la formazione partitica e della governance promossa dalla Cina ha il potenziale per consolidare modelli dominanti di partito unico in Africa. Gli stessi programmi di formazione promossi dal Pcc sono fortemente orientati a intercettare le élite nazionali africane, anche se poi, denunciano fonti della società civile, vi è sempre in agguato lo spettro dello Stato-Nazione che tanti disastri causò nei primi tre decenni della post-indipendenza africana.
Una cosa è certa: come spiega Yun Sun, uno dei più accreditati studiosi della Cina contemporanea, l’impegno profuso dal governo di Pechino nella formazione dei quadri dei partiti africani è «geograficamente espansivo, istituzionalmente sistematico e psicologicamente e politicamente impattante sulle scelte e sulle preferenze dei partiti politici africani e, quindi, sul panorama politico africano».
[Direttore dell’Ufficio della Cooperazione
missionaria della Diocesi di Roma]
fonte: L’Osservatore Romano