Ironizzare sul ritorno alla realtà di Giorgia Meloni e della sua maggioranza è una tentazione comprensibile. Il duro impatto con la concretezza dei conti e dei vincoli europei costringe tutti a rivedere parole d’ordine utili a prendere voti, ma scivolose quando bisogna governare. Per questo il riflesso prudente che si sta facendo strada a Palazzo Chigi va accolto positivamente. Perfino i sarcasmi dei grillini in versione progressista e di alcuni pezzi di sinistra su un esecutivo «in continuità» con quello di Mario Draghi sono da analizzare depurandoli dalla carica strumentale che esprimono.
La continuità con Draghi è reale e insieme impossibile. È reale perché, in un sistema di interdipendenza così stretta con le istituzioni europee, deragliare dal percorso delineato dall’ex presidente della Bce con la Commissione e le altre nazioni alleate sarebbe suicida. E fa bene la premier a dire all’opinione pubblica e al resto della sua coalizione, innamorata delle proprie bandiere elettorali ancora di più nel momento in cui i consensi emigrano verso FdI, che in questa situazione non si può ottenere di più. Non è scontato che il monito basterà, soprattutto se la curva dei sondaggi seguirà inesorabilmente una traiettoria discendente per loro.
Ma dovrebbe bastare per fare in modo che la legge di bilancio, abbozzata ieri da un Consiglio dei ministri notturno, sia approvata senza provocare un’impennata della spesa pubblica. E qui si capisce perché la polemica sul «draghismo» di Giorgia Meloni sia fuori luogo. Un «draghismo» senza Draghi è una contraddizione in termini. Era la sua leadership a plasmare il governo di unità nazionale voluto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ed era il suo credito internazionale e interno a permettere scelte non sempre apprezzate, e non sempre condivise; ma accettate perché provenivano da una personalità della quale si riconoscevano competenza e credibilità.
Prendere quanto di buono Draghi ha seminato, per la maggioranza di destra è un vantaggio. Delegittimare quanto è stato fatto nell’ultimo anno e mezzo solo per schivare le critiche di «continuismo» o le accuse di incoerenza, perché almeno FdI era all’opposizione, mostra invece una fragilità poco comprensibile. A porsi qualche domanda dovrebbero essere, semmai, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, che di quel governo hanno fatto parte; che l’hanno fatto cadere; e che per questo sono stati puniti dall’elettorato, insieme con il M5S, seppure quest’ultimo in misura minore grazie a un abile e spregiudicato approdo a un populismo «progressista».
Il «cambio di rotta» che il governo preannuncia sarà dunque inevitabile, perché è l’espressione di una nuova maggioranza tutta politica. Ma in parallelo non potrà prescindere da alcuni punti fermi. Non a caso, Meloni ha già ribadito che ogni misura dovrà essere presentata solo se avrà un’adeguata copertura finanziaria. E alcune proposte estemporanee, non tutte purtroppo, sono nate e finite nello spazio di poche ore: a conferma che la tentazione di perseguire una strategia elettorale senza elezioni in vista è un virus dal quale anche l’attuale coalizione fatica a liberarsi.
Ma il gradualismo col quale il governo ha deciso di affrontare un provvedimento controverso come il reddito di cittadinanza grillino è un segnale di consapevolezza del momento difficile del Paese. La cautela con la quale si muove sulle pensioni e sulla riduzione delle tasse è destinata a scontentare il resto della maggioranza e forse una parte del suo stesso elettorato; eppure è inevitabile. Il tema è quale visione si scorga dietro una manovra che si sforza di apparire responsabile. E al tempo stesso risente sia delle divergenze tra alleati, sia di una certa insicurezza legata alla paura di offrire pretesti ai pregiudizi europei contro il governo.
Certo, i primi passi non hanno aiutato Palazzo Chigi. Alcune forzature in materia di immigrazione, non si capisce quanto volute o quanto subìte, hanno avuto l’effetto di fare apparire l’Italia più isolata e dalla parte del torto di quanto sia: basta registrare il comportamento «sovranista» della Francia sugli immigrati arrivati lì perché non erano stati fatti sbarcare da noi. Le sparate sul tetto ai contanti, poi ridimensionate, le misure contro i rave party, corrette in corsa, e i proclami sull’autonomia regionale hanno dato una sensazione di approssimazione. Eppure, forse proprio la zavorra iniziale può preludere a un miglioramento, se c’è voglia di imparare dagli errori.
È obbligatorio augurarsi che, al di là delle convulsioni delle opposizioni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi si convincano davvero che una fase va archiviata. Contare sul logoramento della premier sarebbe una strategia pericolosa: in teoria c’è il tempo di una legislatura per fare di più. Dopo il vertice di ieri, «politicamente, la manovra è chiusa», ha spiegato il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Si capirà presto che cosa significa. D’altronde, se il governo va male, l’illusione che l’elettorato se la prenda solo con la Meloni appare miope. Il Paese non lo permetterebbe a una maggioranza politica alla quale il 25 settembre ha consegnato un mandato da rispettare, non da tradire.
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