Il Giubileo è tradizionalmente un tempo di conversione spirituale. E poiché la spiritualità cristiana è «vita secondo lo spirito», gli effetti di questo rinnovamento hanno decisamente a che fare non solo con la salute delle anime, ma anche con l’economia. D’altronde, biblicamente parlando, si tratta di un’occasione privilegiata per ristabilire l’armonia tra le creature e il Creatore nella prospettiva di un nuovo e necessario inizio. Ecco che allora al fine di ristabilire le relazioni umane, si auspica una liberazione dai vincoli che minano profondamente la fratellanza umana. Motivo per cui non si può prescindere dalla cosiddetta «remissione», intesa come occasione di riscatto rispetto ai gravami che la vita riserva. Pertanto, potrebbe essere proficuo, a seguito dell’apertura della Porta Santa, soffermare lo sguardo sulla gravissima crisi debitoria che attanaglia il continente africano.
Un recente rapporto del Finance for Development Lab sul crescente debito nei Paesi in via di sviluppo mette in guardia dalle «implicazioni catastrofiche per il mondo» se la situazione attuale non verrà arrestata. I numeri e le percentuali parlano chiaro. Alla fine dell’anno scorso il debito estero totale dei Paesi africani ammontava a oltre 1.152 miliardi di dollari, e purtroppo continua a salire inesorabilmente. Non solo: un numero sempre maggiore di Paesi africani sta prendendo prestiti in più rispetto al passato, utilizzando una quota maggiore delle proprie magre entrate interne per pagare gli interessi sui prestiti esistenti. Questo significa, in sostanza, che le risorse destinate al servizio del debito hanno determinato una riduzione dello spazio di bilancio disponibile per gli investimenti nell’adattamento climatico, nella realizzazione di infrastrutture e in termini generali nei settori che promuovono la crescita e lo sviluppo del capitale umano, welfare in primis. È il caso dei settori dell’istruzione e della sanità, in cui la spesa pubblica media continentale è inferiore a quella di altre macroregioni comparabili. Ad esempio, tra il 2010 e il 2019, la spesa pubblica media per l’istruzione in Africa è stata il 3,6 per cento del Pil, al di sotto della media globale del 4,2 per cento.
Da rilevare che, sebbene la crescita media attesa in Africa per il 2024 sia pari al 3,5 per cento (dato che la rende una delle dieci economie in più rapida crescita al mondo), il valore assoluto del suo Pil è di circa 3 trilioni di dollari. Una cifra, questa, modesta se confrontata con il Pil dell’Unione Europea (Ue) che ammonta a 16 trilioni e mezzo. Come abbiamo scritto in più circostanze su questo giornale, la crisi debitoria dei governi africani rischia di essere fuori controllo per la decisione (istigata dai grandi player e dalle istituzioni internazionali) di sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati – assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity – molto più oneroso e a breve termine. Si tratta di un trend che negli ultimi due decenni ha comportato un aumento considerevolmente dei volumi di finanziamento da parte di investitori privati in cerca di rendimenti elevati. Basti pensare che tra il 2000 e il 2021, 23 Paesi africani hanno emesso più di 125 eurobond per un valore superiore a 1,51 trilioni di dollari. Sta di fatto che alla fine del 2023, il 49 per cento del debito africano era in mano di privati, e si prevede che salirà al 54 per cento entro la fine del corrente anno. Tra il 2015 e il 2022, per 49 dei 54 Paesi africani i costi medi del servizio del debito sono aumentati dall’8,4 per cento al 12,7 per cento del pil. Secondo l’African Economic Outlook Report della Banca africana per lo sviluppo (AfDB), nel 2024 l’Africa nel suo complesso dovrà spendere circa 74 miliardi di dollari per il servizio del debito. Rispetto ai 17 miliardi del 2010. Da notare che dei 74 miliardi, ben 40 sono dovuti a creditori privati.
Se da una parte è vero che l’attuale congiuntura internazionale non è favorevole, dall’altra è importante sottolineare quanto stigmatizzato recentemente da Kevin Urama, vicepresidente e capo economista dell’AfDB. Intervenendo il 30 novembre scorso alla quinta sessione straordinaria del Comitato per la finanza e gli affari monetari dell’Unione africana, tenutosi ad Abuja, in Nigeria, Urama ha dichiarato: «I Paesi africani, quando prendono a prestito sui mercati dei capitali internazionali, pagano interessi del 500 per cento in più rispetto a quanto pagherebbero all’AfDB e alla Banca Mondiale». L’economista Paolo Raimondi, attento osservatore della questione del debito africano, ha fatto notare a questo proposito che: «Dal 2010 il debito pubblico dell’Africa è aumentato del 170 per cento, in gran parte a causa dei problemi strutturali del sistema debitorio, dei recenti shock globali e delle sue note debolezze». L’aumento dei tassi di interesse e le scadenze per i saldi stanno moltiplicando le sfide negli anni a venire. È sufficiente leggere le previsioni del Debt Relief for Green and Inclusive Recovery, un progetto di ricerca internazionale, secondo cui, da qui al 2030, i governi dell’Africa subsahariana saranno costretti a sborsare in media il 12 per cento delle entrate nel servizio del debito estero: una quota che sale sopra il 25 per cento per Angola, Zambia, Benin e Ghana. Ignorare questi problemi significa spingere le economie africane verso un’austerità cronica e una dipendenza ancora maggiore dall’export di commodity (materie prime), riproducendo quelle dinamiche predatorie che hanno reso l’Africa una terra di conquista. Lo stesso tema del debito, alla prova dei fatti, ha sempre più una struttura usurocratica, non foss’altro perché la finanziarizzazione dell’economia mondiale, unitamente alle attività speculative sui mercati, sortisce effetti invasivi a non finire.
Lo ha spiegato molto bene il presidente dell’AfDB, Akinwumi Adesina, il quale, senza mezzi termini, in una delle sue ultime dichiarazioni ha spiegato in cosa realmente consiste il cortocircuito tra le economie africane, gli investitori internazionali e le agenzie di rating. Intervenendo al convegno on line «The Next 3 Billion», Adesina ha spiegato che il costo della raccolta di capitali in Africa è «tre o quattro volte» più alto che in altre parti del mondo. «Questo si basa – ha detto – sul rischio, ma principalmente in termini di rischio percepito». Il presidente della AfDB ha così criticato le distorsioni nella valutazione del rischio per i Paesi africani perpetrate dalle agenzie di rating statunitensi, particolarmente durante la pandemia Covid-19: Standard & Poor’s (S&P) Moody’s and Fitch. Nella stessa occasione, Adesina ha parlato della costituzione dell’Africa Credit Rating Agency (AfCRA), un’agenzia di rating dell’Unione africana (Ua) che avrà il compito di «fornire effettivamente un contrappeso alle agenzie di credito esistenti», in modo che «il rischio dell’Africa sia affrontato in modo adeguato» rispetto ai giudizi, spesso di matrice speculativa, espressi da colossi di cui sopra: S&PGlobal Ratings, Fitch e Moody’s. Nell’abbondanza di annunci, più o meno formali, il fatto che l’ AfCRA possa essere operativa entro il 2025 fa ben sperare. Papa Francesco, in più circostanze, ha fatto intendere che c’è urgente bisogno di una «nuova architettura finanziaria» per contrastare quei problemi finanziari strutturali globali che hanno ricadute nei Paesi dell’Africa e del Sud del mondo. Lasciarli nel cassetto del dimenticatoio vuol anche dire acuire la povertà con i suoi effetti destabilizzanti. Coloro che si dicono cattolici e hanno responsabilità decisionali nel consesso delle nazioni, durante il Giubileo, hanno il dovere di sostenere queste riforme per il bene dei popoli africani.
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