Thomas Piketty è l’economista francese specializzato nella storia della diseguaglianza e conosciuto al grande pubblico per la tesi nella quale sostiene che il tasso di rendimento di un capitale è sempre maggiore rispetto al tasso della crescita economica generale. Una tesi resa nota nel celeberrimo saggio Il capitale del XXI secolo, pubblicato nel 2024 e tradotto in più di quarantatré lingue, per una tiratura monstre di 2,5 milioni di copie. Secondo l’economista Branko Milanovic, nel suo ultimo libro Visioni della disuguaglianza, Piketty è uno tra i maggiori economisti della storia, assieme a Francois Quesnay, Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Vilfredo Pareto e Simon Kuznets. Infatti, secondo Milanovic, Piketty rappresenta la continuità del pensiero marxista, in modo principale nella tematica inerente le sperequazioni che hanno i redditi provenienti da capitali rispetto a quelli da lavoro.
Lo scorso dicembre Baldini+Castoldi ha pubblicato, in traduzione italiana, una raccolta di articoli pubblicati tra il 2016 e il 2020 dall’economista francese sul blog di Le Monde, con il titolo Il socialismo del futuro. Gli articoli raccolti mettono in rilievo diversi aspetti peculiari dell’economista francese: il primo, è la concezione che la scienza economica sia, per prima cosa, una scienza morale e sociale; il secondo, riguarda il metodo adottato che è essenzialmente empirico. Come ha scritto, per la sua formazione da economista sono stati fondamentali gli studi di Atkinson e Kuznets.
Ad oggi, scrive Piketty, la teoria neoliberale della crescita generale della ricchezza impostata dall’alto verso il basso è stata un disegno fallimentare e le diseguaglianze economico-sociali presenti sono di natura politica, e uno degli imputati maggiori sono stati i partiti socialdemocratici europei che non hanno saputo o voluto estirpare quei disvalori come il patriarcato e la questione della discriminazione etnica. Dall’altre parte però, i governi europei che hanno visto la partecipazione dei partiti socialisti e socialdemocratici, tra il 1910 e il 1920 e poi tra il 1980 e il 1990, avevano avviato delle politiche di sviluppo dello Stato sociale in cui è stato incrementato progressivamente l’investimento nell’istruzione, nella salute e nella stabilità economica, quest’ultima strettamente legata a quella sociale.
A suffragio di ciò, sostiene Piketty, se negli anni Dieci e Venti del Novecento nell’Europa occidentale la spesa pubblica ammontava a circa il 10% del PIL, negli anni Ottanta questa è aumentata tra il 40% e il 50% del PIL e gli effetti di queste riforme risultano ancora oggi evidenti.
Nel primo articolo raccolto del saggio intitolato, Finalmente il socialismo!, datato settembre 2020, Piketty definisce quella che per lui è la migliore forma economica e sociale sostenibile, denominata con il lessema di socialismo partecipativo, che secondo l’economista deve poggiarsi su tre presupposti fondamentali: sistema legale, fiscale e sociale di tipo internazionalistico, dove la concezione economica liberoscambista deve essere rimossa per poter creare ex novo un sistema economico fondato secondo un principio di equità. Ma per attuare ciò è necessario proporre agli Stati un unico modello di cooperazione fondato su valori etici universali di giustizia sociale che deve necessariamente comprendere equità fiscale, sociale e climatica.
Il socialismo partecipativo non può quindi prescindere da valori etici che ruotano intorno all’uguaglianza in tutte le sue declinazioni, con l’obiettivo di porre in atto una equa globalizzazione. Dal punto di vista del settore dell’industria e del lavoro, uno sviluppo del socialismo partecipativo deve avvenire verso la cosiddetta cogestione aziendale, ovvero la partecipazione di minoranza, ipotizzabile tra il 10 e il 20% del capitale sociale da parte dei dipendenti stessi delle aziende di medie e grandi dimensioni. Mentre per le corporation bisognerà permettere ai rappresentanti dei lavoratori di detenere almeno il 50% dei voti all’interno del consiglio di amministrazione. Secondo le tesi di Piketty, l’obiettivo di fare entrare rappresentanti dei lavoratori all’interno del cda delle aziende è quello di permettere una maggiore circolazione delle mobilità della proprietà di bilanciamento di chi detiene i mezzi di produzione.
Ma questo bilanciamento non sarebbe sufficiente senza un’adeguata riforma del sistema fiscale, che deve comprendere l’introduzione di una tassa sulle successioni per i grandi patrimoni e di una carbon tax. Misure che avrebbero diversi effetti: sosterrebbero la salvaguardia dei ceti più deboli e andrebbero ad aumentare il livello di responsabilità sulle emissioni di CO2, sia da parte delle persone fisiche che giuridiche.
Un ulteriore provvedimento che per Piketty è fondamentale per ridurre le diseguaglianze è quello di programmare un’erogazione di eredità minima universale che si dovrebbe aggirare intorno ai 120.000 euro e che andrebbe versata dopo il ventesimo anno di età. Eredità che verrebbe finanziata tramite un’imposta progressiva sulla proprietà e che avrebbe un impatto medio intorno al 5% sui vari PIL nazionali. L’eredità minima è una misura che servirebbe, oltre che per accedere ai beni fondamentali, come una casa di proprietà, anche a chi si vuole creare una base economica per aprire un’impresa, oppure a chi non vuole accettare mansioni sottopagate e dequalificanti e può utilizzare l’eredità minima come ammortizzatore per il tempo in cui è intento a trovare una posizione che sia adeguata al proprio titolo di studio.
Se dal punto di vista macroeconomico le analisi di Piketty si inseriscono in continuità con le tesi marxiane, come affermato da Milanovic, per quanto concerne la storia dell’economia si può sostenere che esse vanno a porsi in continuità con quanto postulato da Fernand Braudel nel saggio I tempi del mondo (1982), ultimo volume che conclude la trilogia intitolata, Civiltà materiale, economia e capitalismo (Secoli XV-XVIII), che aveva per oggetto lo studio della storia del capitalismo. Braudel scriveva che l’errore storico del socialismo era stato quello di sostituire il monopolio del capitale con le norme ferree dello Stato e questo, di conseguenza, andava a formare una somma fra i difetti del capitalismo e quelli dello Stato burocratico. Per lo storico francese l’unica soluzione era creare una società giusta in cui i vantaggi economici dell’economia di mercato, apportatrice di innovazione e benessere economico, non fossero appannaggio solo di un gruppo ristretto dominante. E per attuare ciò l’unica soluzione andava ricercata in una riforma dell’ordine sociale e mondiale.
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