Il fine del cattolicesimo politico non è il potere ma promuovere i valori di giustizia e di pace, di Rocco D’Ambrosio

“Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Tanti, tanti non hanno voce. Tanti. Questo è l’amore politico…”. Del bel discorso di papa Francesco a Trieste (50° Settimana sociale, 7.7.24) mi ha colpito molto questa sintetica affermazione.
La frase sembra implicitamente rispondere a una domanda difficilissima: in Italia c’è ancora un cattolicesimo politico? E gode di buona salute? Certamente apparteniamo a un Paese e a una Chiesa cattolica nazionale che ha detto e fatto molto in termini di testimonianza e attività politiche di ispirazione cattolica. Non c’è stata solo la DC, ci sono stati i cattolici impegnati nel sindacato, volontariato, mondo economico e culturale. Ci sono ancora? Ovviamente si. Ma possono oggi definirsi come un filone culturale e politico che incide nel tessuto del Paese, come, per esempio, nel secondo dopoguerra? Con molta difficoltà.
Quando si ha una grande tradizione alle spalle è normale farsi prendere dalla nostalgia, che riassumerei nella battuta: “Quelli si che erano bei tempi!”. Malattia anche presente in altre forze sociali e politiche. Nessuno può negare le valide testimonianze di quei cattolici che con coscienza, competenza e sacrifici hanno contribuito a costruire il Paese. La loro testimonianza resta certamente, ma il loro tempo è passato, le lancette dell’orologio non possono essere sposate indietro, il mondo va avanti, anche tra crisi sanitarie ed economiche-sociali, neofascismi e derive autoritarie e populiste, non autenticamente per il popolo, come ha ricordato anche il papa. Porre ancora il problema del “partito cattolico” è una cosa così stucchevole e fuori luogo che distoglie dai problemi cruciali. Che piaccia o meno il punto di partenza è quanto il Vaticano II, Paolo VI, Francesco hanno detto chiaramente: si può essere cattolici e operare in schieramenti politici diversi, purché si sia, sempre e comunque, coerenti con la propria fede.
Accettato ciò si pone il problema della testimonianza, la coerenza dei cattolici presenti nella vita sociale e politica, in qualsiasi ambito o responsabilità. Il papa ha invitato loro a “prendersi cura del tutto”. Il fine del cattolicesimo politico non è assumere potere, ottenere maggioranze o egemonie culturali. Il fine è testimoniare il Vangelo, aiutare la costruzione del Regno di Dio già su questa terra. “Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico”, ha detto il papa.
Non sono in quest’ottica gli pseudo cattolici che, sbandierando rosari o posizioni contro aborto ed eutanasia, si autoiscrivono a tradizioni culturali e religiose da cui sono lontani miglia. Ci sono anche i cattolici, pastori e laici, che corrompono e si fanno corrompere, che imprecano contro i migranti, trascurano giustizia e pace, vanno a braccetto con i potentati economici, specie quelli generosi con pingui offerte per diocesi, parrocchie e gruppi vari. Semplicemente dovremmo dire che non sono cattolici, piuttosto sono figli e nipoti degli “atei devoti” (descritti da Beniamino Andreatta) e che trattano la fede come un’ideologia. Ma le ideologie, ricorda il papa, “sono seduttrici. Qualcuno le comparava a quello che a Hamelin suonava il flauto; seducono, ma ti portano ad annegarti”.
In questo invito alla partecipazione autentica e coerente il papa fa un ulteriore richiamo: “Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale”. Questo è certamente un nodo delicatissimo: cattolici e democrazia. La Chiesa non è una democrazia e la democrazia è una forma di potere e partecipazione politiche. Le due istituzioni hanno fondamenti, prassi e storie completamente diverse. Confonderle crea più caos di quanto già ne esista. In materia, qui, pongo solo una domanda: ma che esperienza di democrazia fanno i cattolici nelle comunità di appartenenza?
Il cammino sinodale – mia personalissima opinione – ha fatto e fa molto fatica ad attecchire in ambito cattolico. In molti casi non è partito affatto. Anzi sono ancora vigorose tutte quelle forme accentratrici di potere, da parte di vescovi, preti e super laici, che non aiutano a pensare in termini partecipativi, democratici si direbbe nel mondo. Il clericalismo, le forme di accentramento di potere hanno ancora la meglio in nomine ecclesiastiche, amministrazione di denaro e beni comunitari, aperture alla partecipazione di tutti.
Dovremmo essere un po’ più umili quando chiediamo alle istituzioni laiche di essere più democratiche e dimentichiamo le tante “travi” nei nostri occhi. La democrazia si costruisce con persone mature, preparate e probe, che non potranno mai “sbocciare” in ambienti clericali e preconciliari. I processi democratici che il papa ci chiede di avviare partano da nuove e fondate formazione, cultura e prassi ecclesiali. Non è solo la storia a testimoniarlo, ma anche il Vangelo: è il lievito a fermentare la massa (Mt 13). Non viceversa.

globalist.it/politics/2024/07/07/il-fine-del-cattolicesimo-politico-non-e-il-potere-ma-promuovere-i-valori-di-giustizia-e-di-pace/

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