La paura e la speranza, metus et spes, sono le passioni politiche per eccellenza, afferma Thomas Hobbes. La speranza di poter godere in una condizione di pace dei frutti del proprio ingegno e della propria industriosità e la paura che, al contrario, lo stato di guerra continua di tutti contro tutti possa impedire che ciò avvenga. Ma la paura ha per Hobbes anche un’altra funzione.
Gli accordi stipulati tra le persone per ricercare la pace, se basati esclusivamente sulla fiducia, si riveleranno sempre troppo fragili e insicuri. Il vincolo fiduciario non può rappresentare un terreno solido su cui costruire una convivenza sicura e pacifica. «Ove sussista timore di non adempimento da parte dell’altro contraente – infatti, sostiene Hobbes – non sono validi i patti basati sulla reciproca fiducia, allora, benché l’origine della giustizia sia il fare i patti, tuttavia non può esservi effettivamente nessuna ingiustizia finché non sia eliminata la causa di tale timore».
La paura arriva dove non basta la fiducia
La fiducia tra le parti, in altre parole, non è condizione sufficiente a stabilire ciò che è giusto o ingiusto, perché, data la natura umana, è certo che tale fiducia verrà tradita appena una delle parti ne potrà trarre vantaggio. Ecco che il vincolo del patto fiduciario appare insufficiente persino a fondare il concetto stesso di giusto o ingiusto. Ricordiamo, infatti, che per Hobbes l’ingiustizia equivale nella sua essenza più profonda proprio dalla violazione dei patti. Ma se questi patti sono fondati su un legame così flebile come quello fiduciario, allora la loro trasgressione sarà così certa che, paradossalmente, non si potrà configurare neanche come una forma di ingiustizia.
È qui che subentra nuovamente la paura. «Prima che i nomi di giusto e ingiusto possano trovar posto – affinché si possa effettivamente giudicare uno stato di cose come giusto o ingiusto, continua Hobbes – deve esservi un qualche potere coercitivo, per costringere ugualmente gli uomini all’adempimento dei loro patti col terrore di punizioni più grandi del beneficio che si ripromettono dalla rottura dei patti medesimi».
Senza la paura di un potere più grande, terzo tra le parti, che possieda l’autorità e la forza necessaria ad obbligare con la minaccia i contraenti al rispetto dei patti, che in questo caso dovremmo propriamente chiamare contratti, allora non potrà esserci un vincolo sufficientemente saldo su cui fondare l’obbligazione e, di conseguenze, i concetti di giustizia e ingiustizia. E la nascita di un tale potere è ciò che deriva dalla creazione dello Stato.
Hobbes lo ribadisce prendendo spunto dalla definizione classica di giustizia, cioè «la volontà costante di dare a ciascuno il suo». Ma se non esiste il «suo», cioè non esistono ancora dei «patti validi» su cui fondare il diritto di proprietà, allora non potrà esistere neanche la possibilità che ciascuno riceva o mantenga quanto dovuto. «Dove non esiste un potere coercitivo istituito – continua il filosofo – cioè dove non esiste Stato (…) nulla è ingiusto. Cosicché la natura della giustizia consiste nel rispettare i patti validi, ma la validità dei patti non ha principio se non con la costituzione di un potere civile sufficiente a costringere gli uomini a mantenerli; ed è allora che ha pure principio la proprietà».
La nascita convenzionale del potere politico
Siamo arrivati allo snodo centrale della costruzione teorica di Hobbes: la nascita, per accordo e convenzione, del potere politico, impersonato dalla figura del Leviatano che sorge tra le macerie dello stato di natura e vi porta l’ordine del contratto. Come interpretare, dunque, questo contratto sociale che genera il potere politico? Le possibilità sono almeno tre.
La prima e più ingenua è quella relativa ad un effettivo accordo storicamente verificatosi in qualche momento storico lungo l’evoluzione della civiltà umana. Non era certamente questo ciò che Hobbes aveva in mente. La seconda interpretazione si basa su un ragionamento decisamente più sofisticato. Secondo Rawls, qui Hobbes assume una metodologia di indagine non dissimile dal moderno metodo assiomatico.
Nella teoria della scelta sociale, disciplina alla quale hanno dato contributi pionieristici importanti pensatori e riformatori sociali come Bentham e Condorcet, e ai giorni nostri vari premi Nobel come Amartya Sen e Kenneth Arrow, si stabiliscono a priori alcune caratteristiche desiderabili che si vorrebbero osservare in certi fenomeni, per esempio la capacità di alcune leggi elettorali o di sistemi di aggregazione delle preferenze, di rispecchiare concetti basilari di democraticità, e poi si derivano matematicamente le regole che sono in grado di rispettare quelle caratteristiche desiderabili e determinare i risultati voluti.
Il ragionamento che Hobbes sviluppa intorno al contratto sociale è per molti versi simile. «Secondo questa interpretazione – ci spiega Rawls nella sua prima lezione su Hobbes – l’idea del contratto sociale mostra un modo in cui la società civile avrebbe potuto essere generata – non il modo in cui essa è stata di fatto generata, ma come avrebbe potuto esserlo. Esistono delle proprietà riconosciute della società e dei suoi requisiti – per esempio, i poteri necessari del sovrano, ossia il fatto che il sovrano deve possedere certi poteri se la società deve stare insieme (…) Noi riconosciamo queste proprietà e ne rendiamo conto come di cose che le persone nello stato di natura considererebbero essenziali se il contratto sociale deve raggiungere lo scopo che si prefigge, ossia stabilire la pace e la concordia. Così, il contratto sociale attribuisce questi poteri necessari al sovrano». (Lezioni di Storia della Filosofia Politica, Feltrinelli, 2009).
Lo stato di Natura come collasso dello stato di Diritto
A questa interpretazione se ne può aggiungere una terza. In questo terzo caso possiamo immaginare lo stato di natura non tanto come una fase storica dell’evoluzione politica ma come una possibilità sempre incombente nel caso in cui lo stato di diritto dovesse collassare.
Assumiamo che il Sovrano sia già in carica ed eserciti il suo potere legittimamente per far rispettare i patti tra i cittadini e assumiamo anche che questi siano razionali e condividano le assunzioni che Hobbes pone sulla natura umana: uguaglianza nella forza e nell’ingegno, mutua uccidibilità, spirito di conservazione, etc… allora, in questo, caso il contratto sociale non sarebbe altro che l’accordo che, proprio in virtù della loro spinta all’autoconservazione, i cittadini sarebbero disposti a sottoscrivere per far continuare il Sovrano ad esercitare legittimamente i suoi poteri.
In ognuna di queste possibili interpretazioni è sempre presente l’elemento centrale che caratterizza il contratto sociale e, cioè, la sua natura volontaria. Il potere politico nasce e si esercita esclusivamente con il consenso di coloro che ne sono soggetti. In questo, per esempio, ci ricorda Norberto Bobbio, che «se è vero che il fondamento di legittimità del potere politico debba essere il consenso, quale si esprime attraverso una o più convenzioni, ne segue che il potere politico riposa su fondamenta diverse da quelle su cui riposano il potere domestico e il potere padronale» (Thomas Hobbes, Einaudi, 1989).
E questo potere è esercitato grazie al consenso di tutti i cittadini uniti – come ce la descrive Hobbes – «in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile».
La cessione di sovranità individuale genera lo Stato
È questa libera cessione di sovranità individuale che genera una «moltitudine così unita in una persona [che] viene chiamato uno Stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa». Nel frontespizio della prima edizione del Leviatano vediamo questo deus mortalis sorgere da dietro i monti nella magnificenza di un corpo formato dalla moltitudine dei cittadini che da quel momento scelgono di nominarlo mediatore delle loro relazioni sociali.
A quest’essere hanno infatti consegnato il bastone pastorale, che tiene nella mano sinistra e che simboleggia l’autorità religiosa e nella mano destra vediamo invece la spada, simbolo dell’esercizio legittimo della forza, perché «I patti senza la spada sono solo parole». Da questo momento, da quando il regno del Leviatano, cioè, rende la proprietà salda e i diritti sicuri, diventa possibile parlare di giustizia e del suo contrario come, rispettivamente, del rispetto dei patti e della loro violazione. Si esce dallo stato di natura e si assiste alla nascita della società civile. Una società che per essere civile sceglie liberamente di assoggettarsi al potere assoluto del Sovrano. Un paradosso, questo, che avrà bisogno di molti secoli ancora per essere sciolto. Un paradosso che oggi riemerge prepotentemente all’orizzonte nel conflitto latente tra le democrazie liberali e le potenti autocrazie che vediamo consolidarsi sempre di più.
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Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.