Facciamoci un regalo. Non costa nulla. Quale? Un attimo d’attesa. L’Italia ha un grande capitale sociale che non è purtroppo un attivo patrimoniale. Invidiato da altri Paesi più ricchi di noi. Avessimo potuto contabilizzarne gli effetti nella legge di Bilancio — aggredita dalle corporazioni e veicolo di mance e mancette — trascorreremmo un Natale più sereno. Avremmo meno timori nel futuro. Il valore della solidarietà italiana è altissimo e sottostimato. È costituito da milioni di persone, volontari, caregivers che ogni giorno fanno qualcosa per gli altri, i più fragili. E, a volte, non ci tengono nemmeno a farlo sapere. Non c’è bisogno reale che non abbia un’offerta d’aiuto. Al di là di qualche eccesso di retorica, l’Italia è davvero un Paese con il cuore in mano. Semmai c’è un problema di associazioni (tantissime) troppo piccole, di slanci tanto entusiastici quanto improvvisati, di una perdonabile vanità del bene.
Quello che è insopportabile è lo scialo nazionale di questo patrimonio di attività. Sono poche le sinergie, trascurabili le economie di scala. Il futuro è delle comunità. Più grandi saranno più forte risulterà il Paese. Affiancheranno o sostituiranno in molte attività uno Stato che avrà sempre meno risorse a disposizione nell’affrontare, per esempio, la non autosufficienza, l’esplosione delle malattie croniche, la povertà materiale ed educativa.
E non ci si potrà affidare (come avviene con sempre maggiore frequenza nella Sanità) alle dinamiche del mercato. Non riusciamo, tranne pochi casi, a dare una dimensione nazionale a tante e lodevoli iniziative.
Nell’era (forse già calante) delle autonomie differenziate, dovremmo riscoprire la centralità nazionale di molte iniziative solidali (a favore di giovani, immigrati, anziani, famiglie con disabilità). Insieme il dividendo del bene cresce. L’efficienza è un dovere verso chi dona e non mette in conto di perdere l’effetto della propria generosità. Lo spreco è un aiuto negato a chi ne ha bisogno. Non c’è fervore volontaristico che possa giustificarlo. Dobbiamo sconfiggere l’ossessione (succede così anche per le attività economiche) che la dimensione faccia perdere l’anima e trasformi le associazioni in aziende. Combattere l’idea perversa che nel mondo del volontariato e del privato sociale tutto ciò che è piccolo sia autentico e tutto ciò che è grande tradisca lo spirito originario.
La sostenibilità delle aziende (il senso percepito dal pubblico della loro utilità sociale) è legata al loro rapporto con il territorio e con le comunità di riferimento. Più la relazione è forte, più saranno attraenti distretti e comprensori come destinatari di investimenti, in particolare esteri, a beneficio del reddito e dell’occupazione. Tutto ciò è anche un fattore di competitività del made in Italy. Ma non è questo l’aspetto importante, dirimente. Conta lo spirito della comunità, non la sua ricchezza. Il migliore dei regali che possiamo augurarci è di fare qualcosa — anche poco, un piccolo gesto, un impegno personale non solo un contributo monetario — a favore delle tante comunità solidali di cui è ricco il Paese. Costa poco, rende molto. È sempre un antidoto al rancore sociale. In molti casi è anche la cura della solitudine. Migliora l’umore, dà senso alla cittadinanza. Che cosa vogliamo di più?
P.S. Generalmente quando si parla di questi temi, c’è sempre qualcuno che tira fuori De Amicis, con l’intento di banalizzare ogni proposito. Ma forse, con tutto il rispetto per Umberto Eco e per il suo celebre Elogio di Franti, è il momento di rivalutare Garrone e smetterla di considerare i buoni, sotto sotto, degli ingenui per non dire peggio, ma è Natale.
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