Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, dissidente iraniana in carcere con condanne che si accumulano invece di consumarsi, ha scritto tempo fa una lettera al mondo invitandoci ad ascoltare il sibilo che arriva quando un muro comincia a creparsi e finalmente l’aria passa. Succede ogni volta che la presunta “stabilità” dei regimi viene svelata nella sua debolezza strutturale. Succede se la gente comincia ad avere meno paura. E succederà, assicura ottimista Mohammadi – nonostante la reclusione, lo strazio dovuto a cardiopatie e un sospetto cancro, la separazione dai figli che erano bambini e sono ormai maggiorenni –, «succederà che un giorno quel muro, eroso, verrà giù di colpo».
Lo abbiamo visto a Berlino, nel novembre di un altro secolo, e ci sembrava impossibile che si chiudesse così – con una festa – la guerra fredda. E ora in Siria, domenica 8 dicembre. In undici giorni e poche ore è finito in briciole, con i colpi di kalashnikov a sostituire i fuochi d’artificio, il dominio feroce degli Assad, cinquantaquattro anni di asfissia e di sangue passati come uno scalpo dal padre Hafez al figlio Bashar. Abbiamo osservato i ribelli scendere inarrestabili verso Damasco. La capitale che cede, senza resistenza, con i soldati che stracciano le uniformi e consegnano le armi.
Ai primi inviati dei giornali stranieri, tra cui Andrea Nicastro del Corriere, una giovane donna dice di temere di scoprirsi sonnambula: «Forse sto dormendo e questo è l’ultimo sogno». Molti di quanti hanno cantato e ballato il sollievo, respirando aria nuova, sanno che niente è scontato: potrebbero essere le luci che precedono un altro buio, pronto a calare su un Paese diviso in zone controllate da gruppi rivali, in armi, con alleati contrapposti. Ma, come ha scritto l’analista Nathalie Tocci su La Stampa, la caduta di Bashar Assad ha messo in discussione «il realismo irrealistico» della nostra politica estera che tende a vedere negli autoritarismi «una stabilità granitica». È sempre quell’idea, nuova e già vecchia, che le dittature, le autocrazie, le democrature siano più adatte a governare i tempi di crisi, più capaci… Più capaci di cosa? Seminano e coltivano disordine, dentro e fuori. Noi scambiamo la longevità, relativa, di governi illiberali/sessisti/guerrafondai per efficacia. È un nostro errore, che ripetiamo a ogni giro, mentre passiamo in rassegna le debolezze delle democrazie liberali esposte, giustamente, al dibattito nei Parlamenti e sui media. Dovremmo, al contrario, tornare a riconoscere che la violenza – la forza di uno Stato esercitata brutalmente – non corrisponde mai a un potere reale. Per questo, crollerà anche il sistema più dispotico. È ancora la lezione di Hannah Arendt, Sulla Violenza, 1969. Il fattore umano risale e dirompe, non si lascia cancellare.
In poche ore, la gente di Damasco ha scoperchiato i suoi luoghi oscuri: i piani sotterranei delle prigioni, dove i bimbi venivano rinchiusi con le madri, e il garage del palazzo presidenziale sulla collina, affollato da cento bolidi ad uso familiare. La fuga di Assad con moglie e figli – 500 mila morti, 112 mila dispersi e milioni di sfollati dopo – ha riacceso la speranza che il tormentato processo innescato dalle primavere arabe, nel 2011, riprenda il suo cammino. Il leader che si raccontava eterno era in bilico, come quelle statue fuori misura e fuori tempo.
È vero che la caduta di Damasco potrebbe alimentare un idealismo altrettanto irrealistico. Ci interroghiamo sugli scenari, speriamo e nello stesso tempo temiamo che dalla tirannia di un clan (gli Assad) chiuso nel recinto di una minoranza (gli alawiti) la Siria passi all’egemonia radicale di una maggioranza sunnita salafita. Il cui leader (Ahmed al-Sharaa, fino a ieri semplicemente “Al Jolani”) si è spostato rapidamente dai campi jihadisti (Al Qaeda, Al Nusra, temporaneamente pure l’Isis) a una militanza nazionalista, pragmatica, che oggi promette libertà religiose e non minaccia attentati oltre confine. L’incertezza grava in particolare sul destino delle donne: non pochi tra gli osservatori vedono profilarsi in Siria lo scenario di un (altro) apartheid di genere. Abbiamo già abbandonato le afghane, cancellate dall’ordine del giorno nei primi incontri riavviati con i talebani. Riproviamoci – da Damasco a Kabul fino a Teheran – ora che sono in gioco gli equilibri futuri della regione: impegniamoci a far risalire i diritti nelle agende internazionali.
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