Le religioni sono il primo strumento con cui gli esseri umani hanno cercato di sconfiggere la morte, sono il grande cimento per rendere immortale ciò che naturalmente non lo è. Sono quindi il risultato del grande desiderio collettivo di metamorfosi della morte in valore. Il sacrificio è il medium che dovrebbe operare questa alchimia mirabile. E così, piante o animali destinati per loro natura alla morte, nel momento in cui vengono, nel rito, sacrificati escono dall’ordine naturale mortale e entrano in quello divino immortale – qui c’è il senso dell’etimologia di sacrificio: “fare sacro”. Uccidendo contro-natura la vita sull’altare la si rende immortale. È questa una spiegazione anche degli arcaici sacrifici umani: offerti agli dèi morivano sacrifica mente contro-natura e quindi non morivano più nella natura. Così, «l’uomo si costituisce come procuratore di morte nel seno stesso del morire naturale» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, p. 236).
L’uomo antico vedeva la natura morire di una morte parziale e non definitiva, perché il ciclo delle stagione faceva “risorgere” in primavera ciò che moriva in autunno, e ciò gli suggeriva che da qualche parte doveva accadere qualcosa di simile anche per gli uomini: «Un vecchio canto Dinca lamenta che mentre il sole sorge, passa e tuttavia ritorna, e così pure la luna, soltanto l’uomo nasce, passa e non ritorna più» (De Martino, ivi). Donando agli dèi cose vive queste escono dal tempo ed entrano nell’eternità – non capiamo la teologia antica della vita consacrata senza questa trasformazione e divinizzazione del dono della vita, né capiamo il profondo senso del lutto, cioè «procurare al defunto quella seconda morte culturale che vendica lo scandalo della morte naturale» (De Martino, ivi).
Con il Cristianesimo fa però irruzione sulla terra qualcosa di inedito. Cristo ribalta anche la logica delle religioni antiche: non siamo più noi che offriamo alla divinità i nostri doni-sacrifici mortali chiedendo di renderli immortali. Nell’eucarestia, quella sintesi viva della passione-morte-resurrezione di Cristo, è Gesù che donandosi a noi come pane ci fa partecipare della divinità. Non sono più i nostri doni a morire per poter vivere per sempre, ma è Dio che morendo-risorgendo ci dona qualcosa di vero della sua immortalità. L’eucarestia è dunque l’anti-sacrificio, è la parola fine sulla logica sacrificale, è la buona charis, la bella gratitudine. È tutta gratuità assoluta perché libera dal registro commerciale. Sta qui l’umanesimo del Cristianesimo. Nella prassi della tradizione cattolica, però, a partire soprattutto dalla Controriforma, questa dimensione assoluta di gratuità non sì è affermata nella cultura-culto nel popolo. Le persone continuavano ad interpretare la religione con il registro sacrificale, dove nessuna grazia è gratis: «“Se non accettate la gallina, la grazia non vale, e il bambino nascerà cieco”. “La grazia è gratuita”, disse don Paolo. “Le grazie gratuite non esistono”, rispose la donna». (Ignazio Silone, Vino e pane). La reazione cattolica alla salvezza per “sola grazia” dei protestanti rafforzò e amplificò l’idea della religione delle “opere” con le quali che si deve “meritare” la salvezza. La grazia non è avvertita come gratuità incondizionate: occorre lucrarla, guadagnarcela.
E così, anche la confessione e la conseguente eucarestia vennero lette dentro un rapporto di scambio uomo-divinità. Se prendiamo, per esempio, il “Catechismo di Pio X” (del 1905), si comprende subito che la narrativa della confessione porta a leggere la penitenza come il prezzo da pagare per ottenere la grazia del perdono e quindi la comunione-eucarestia. La natura condizionale dell’assoluzione la colloca naturalmente in un contesto giuridico-economico-commerciale di do ut des: uno dei «frutti che produce in noi una buona confessione è la grazia di Dio», che ci «rende capaci del tesoro delle indulgenze», indulgenze troppo facilmente interpretabili come prezzi da pagare per «la remissione della pena temporale» (Catechismo, § 9). L’eucarestia non viene quindi percepita come dono gratuito, arriva come risposta alle nostre buone opere – la grazia non opera se noi non siamo in grazia. Questa percezione e narrazione contrattuale della grazia come risposta di Dio alle nostre opere meritorie ha prodotto effetti molto più vasti della sola interpretazione della confessione o della vita sacramentale, che già sono di per sé molto importanti se pensiamo a quanto sia ancora radicato nel popolo cattolico un approccio ai sacramenti del tipo: “pago e compro”. Chiaramente i teologi dicevano molte altre cose che complicavano e in parte confutavano queste narrative, ma queste “cose” non arrivavano in genere alla gente.
La gratuità-grazia è dunque davvero il tema centrale. Perché è proprio la gratuità che impedisce alle religioni di essere vissute come magia e superstizione. La magia è espressione dell’eterno desiderio dell’uomo di impossessarsi del sacro, manipolarlo e usarlo a proprio vantaggio tramite parole, gesti, pensieri. Per millenni l’esperienza del sacro è stata la reazione umana di fronte al tremendum (Mircea Eliade), al bisogno di capire e cercare di gestire forze che gli esseri umani percepivano sovrannaturali e incontrollabili. L’essenza della magia è un sacro senza gratuità, vissuto tutto dentro il registro dello scambio – l’economico è nato dal mondo del magico, non viceversa. Per questo la Bibbia (soprattutto coi profeti) è stata spietata con il mondo della magia e delle divinazioni, che interpreta come gravi forme di falsa profezia e di idolatria. Fin dai suoi primissimi tempi, la Chiesa ha dovuto fare i conti con la magia e la superstizione. Papi, padri, concili e teologi, quindi, hanno fatto e scritto molto per proteggere la novità del Cristianesimo dalle forme arcaiche del sacro, in particolare dalla magia. Il Rinascimento conobbe un forte ritorno di pratiche magiche ed esoteriche a tutti i livelli.
Prima della Riforma, c’erano stati interventi autorevoli di teologi e filosofi di primo livello (da Erasmo da Rotterdam a Boccella, Querini, Giustiniani, Fregoso) che denunciavano l’uso di immagini di Cristo, della Madonna e dei santi adoperate per varie forme di riti magici per la pioggia, i fulmini, le calamità, o per la fertilità. Quelle tendenze magiche e idolatriche che, già ben presenti nel Medioevo, stavano quindi nel Cinquecento crescendo e rischiavano di diventare una vera e propria epidemia – «San Paolo mio delle tarante». Anche in questo ambito la Riforma protestante fu un evento traumatico e decisivo. Quel processo interno di critica alla magia e alla superstizione subì se non un arresto (la condanna dell’astrologia continuò, ad esempio con Sisto V) certamente un ridimensionamento e un rallentamento. La critica di Lutero e dei riformatori era infatti centrata anche sull’idolatria e paganesimo dei Paesi cattolici, accusati di coltivare nel “popolo semplice” l’adorazione di feticci (statue) e di immagini, in una pietà popolare vista come superstizione.
Questo grande e globale attacco protestante al culto cattolico produsse due effetti principali nel mondo cattolico: (a) una difesa, per reazione, della legittimità di molta pietà e religiosità popolare meticcia, limitandosi soltanto alla condanna di gravi eccessi; (b) rivolgere critiche alla pietà popolare divenne un segnale di eresia di coloro che lo facevano. A tutto ciò si aggiunse poi un terzo elemento, anche questo decisivo. La Chiesa della Controriforma non voleva perdere il rapporto-controllo con il “popolo semplice” lasciato in balìa delle sue credenze. Con il Concilio di Trento fece la sua scelta “pastorale”, e anche qui fu molto diversa da quella protestante. Mentre, infatti, il catechismo di Lutero si rivolgeva ai padri di famiglia, la riforma pastorale della chiesa post-tridentina fu incentrata sui nuovi parroci istruiti (Paolo Segneri) creati dai nuovi seminari e sui nuovi ordini religiosi. I libri e i documenti erano scritti per i parroci e religiosi che ben formati dovevano a loro volta formare il popolo semplice.
Formare i formatori fu la scelta “politica” di Trento, una pastorale mediata di secondo o terzo livello. Per i “semplici” venivano prodotte immagini, innocue filastrocche e litanie facili da memorizzare in volgare o in dialetto (ricordo ancora quelle di mia nonna). Si formarono i pastori, non il gregge composto di illetterati, piccoli, poveri, donne, ignoranti, i rudes, i cafoni – la famiglia non è neanche menzionata nei documenti del Concilio di Trento. Una importante conseguenza di questa scelta fu un inevitabile paternalismo nel trattare i “semplici”. Il paternalismo ha sempre come sua conseguenza naturale l’infantilismo, cioè interpretare il rapporto del clero con i fedeli come quello dei padri con i loro figli – e quando la stupenda realtà evangelica di essere “figli di Dio” diventa essere “figli dei parroci”, si smarrisce facilmente il senso della diversa paternità di Dio e di quella figliolanza. In questo contesto, le pratiche devozionali meticce o totalmente superstiziose furono trattate come “cose da ragazzi”, quindi tollerate come i genitori tollerano i dialoghi dei figli con i pupazzi. Fanciulli intrattenuti a baloccarsi dentro il recinto di una religione minore, considerata inoffensiva per la “salvezza” (la sola cosa che conta), teologicamente innocua.
Si fecero anche molte cose buone “per” i poveri, lo vedremo nelle prossime puntate, ma raramente “con” i poveri (perché per fare cose con i poveri prima occorre riconoscerli come soggetti adulti). Ma diversamente dai bambini che vivono soprattutto di doni, l’esperienza religiosa che il popolo cattolico faceva era dominata da una idea di Dio che se non interviene a liberarci da malattie e povertà è a causa della nostra cattiveria. Produzioni oceaniche di sensi di colpa e di paura, la cui gestione consigliava di offrire a Dio il nostro dolore. E ricordarsi, in questa oikonomia, che Dio era soprattutto agape e amore incondizionale divenne davvero difficile – e, infatti, tanti lo dimenticarono. Così, mentre i teologi discutevano sulla grazia e sui casi di coscienza, il popolo infante coltivava la sua innocente pietà popolare, sviluppava una “religione” di consumo e continuava a invocare gli antichi spiriti ai quali aveva solo cambiato nome, a volte neanche il baldacchino per la processione. Non dobbiamo, a questo punto, stupirci che questi nostri popoli cattolici, educati per secoli a una fede da figli di dèi minori, una volta che in un mondo disincantato la religione perse la sua capacità di soddisfare i gusti dei suoi consumatori, sono passati senza alcun indugio dai santuari ai centri commerciali, dal malocchio ai gratta-e-vinci, dai vecchi (e seri) santi delle chiese ai nuovi “santi” dello spettacolo e delle nuove sette emozionali.Un’ultima nota. Quel popolo “semplice” ogni tanto faceva autentiche esperienze spirituali, perché, grazie a Dio, la voce libera dello Spirito soffia dove vuole, e lo Spirito è “padre dei poveri”, li ama moltissimo. Ma la storia dei Paesi cattolici poteva essere diversa, inclusa la sua storia economica e politica, se mentre si formavano i formatori si fosse cercato di trattare da adulti i poveri – perché i poveri non sono bambini, non sono neanche tanto “semplici”: sono soltanto poveri.
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