L’antico adagio città/contado si ridisegna tra il pieno metropolitano e il vuoto dei territori meno antropizzati. Anche per la transizione delle città, la sola potenza di tecnologia e reti non basta più: occorre anche rigenerare i territori del vuoto, con le risorse ecologiche di acqua, verde, aria. Una discontinuità che scava nell’idea stessa di progresso, interrogando questioni antiche come il divario Nord/Sud e il recente dibattito sull’autonomia differenziata. Sotto l’urto dei grandi flussi di crisi, ci sono nuove fratture che vengono avanti con i dislivelli territoriali che producono differenze sociali dove scava e morde la povertà.
Mi riferisco non solo al divaricarsi tra grandi aree urbane e piccoli centri, quanto all’estendersi di periferie sociali nelle grandi aree metropolitane, alla metamorfosi dei distretti sino allo spopolamento del margine. Questione meridionale e questione settentrionale si sono scomposte nello spazio europeo tra Europa del burro ed Europa dell’olio, sperando nel Pnrr. Sul territorio ci si interroga sull’idea di progresso per includere le pesanti differenze sociali. Si ridisegnano le geografie dello sviluppo territoriale. Si è sciolta l’illusione che la crescita concentrata nelle metropoli avrebbe “sgocciolato” benessere anche sui luoghi e sui ceti “che non contano”, con una visione del rapporto metropoli-territori solo “centro-periferica”.
Oggi siamo dentro la metamorfosi del “margine che si fa centro”, un policentrismo in cui il rapporto non è più solo tra centri e periferie seriali, ma fra tre geografie: grandi piattaforme territoriali urbano-industriali diffuse, città centrali grandi o medie e i vasti territori del vuoto antropico e del pieno ambientale, che le politiche hanno classificato come “aree interne”, aree montane, terre del margine. Sono i nessi funzionali e soggettivi tra queste tre grandi geografie territoriali che vanno ricostruiti, capendo che comuni-polvere, città medie, città-distretto e aree metropolitane non sono gerarchicamente ordinati, ma stanno su un continuum diseguale, in un assetto policentrico a scala regionale e interregionale.
Il Pnrr dovrebbe avere in mente questa geografia per accompagnare lo sviluppo nelle capacità di utilizzo della potenza di tecnologie e flussi da parte delle comunità marginali e dei contesti di periferia rispetto alla città e alle filiere. Dobbiamo evitare che risorse come aree agroforestali, reti di piccole e medie città, aree montane, sistemi ambientali, borghi siano semplicemente incorporati nelle reti neo-industriali delle grandi piattaforme senza che questo porti all’emergere di nuove economie e di nuove forme di vita comunitaria e di società intermedia, di legami associativi utili a ridisegnare in modo più equilibrato i rapporti tra metropoli e territori.
Da questo punto di vista necessita un design infrastrutturale che costruisca reti di connessione, welfare, politiche di ripopolamento, ma anche politiche che consentano ai giovani dei margini territoriali di provare il mondo fornendo poi chance di scelta nel tornare, cambiando e aprendo anche la coscienza di luogo dei territori. Oltre al classico racconto dello spopolamento e della crisi dei servizi, occorrerebbe sostenere le avanguardie agenti che vogliono costruire relazioni non gerarchiche tra città e aree interne e un nuovo equilibrio tra sviluppo e coscienza di luogo.
Perché questo accada, vanno però ricostruite le ragioni per cui comunità spente dovrebbe continuare a vivere come luoghi degli abitanti, non solo dei turisti, nomadi digitali o creativi erranti. Ciò implica un ripensamento non solo sul lato della città e delle grandi reti che possiedono saperi, infrastrutture, relazioni, capitali utili per connettere i territori al mondo, ma anche identità locali delle terre del margine aperte alla relazione con il tessuto urbano-regionale. La crisi ecologica scava e cambia i distretti manifatturieri del made in Italy nelle terre basse della “polpa dello sviluppo”. Nelle terre alte “dell’osso ecologico” serve orientarsi verso quelli che possiamo definire distretti sociali evoluti, ovvero reti di comunità di cura orientate al welfare di comunità e ai servizi di connessione con le città, con il sostegno di corpi intermedi che dalle città guardino alle aree interne con logiche da operatori di comunità, dalle fondazioni alle rappresentanze fino alle utility, provando a ricostruire anche un tessuto di comunità operosa e di filiere locali orientate a uno sviluppo sostenibile verso i bacini di consumo metropolitani.
Da questo punto di vista, proprio la cura dei dislivelli territoriali e sociali interni, mi parrebbe un buon obiettivo soprattutto per quel sistema delle regioni che per missione storica ha dimensione e radicamento per svolgere questo compito. Non è solo questione di ruoli e filiere istituzionali dall’Europa allo Stato centrale alle Regioni sino ai Comuni tracciate dall’alto dal Pnrr nel suo auspicare innovazione digitale ed ecologica per fare coesione. Quale coesione sociale per quale sviluppo è la domanda che, partendo dai territori, risale dal margine sino al centro politico e istituzionale.
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