La tragedia del naufragio del barcone stracolmo di fuggiaschi a pochi passi dalle coste calabresi arriva nelle ore in cui si comincia a scrivere sul decimo anniversario del pontificato di Francesco, un papa che tutti sanno essere anche e particolarmente il papa dei migranti e dei rifugiati. Questa circostanza è molto importante, perché ci consente di capir meglio cosa abbia significato al riguardo il magistero di Francesco, come abbia colto e spiegato un problema enorme, per tutti noi.
Per chiunque sia stato preso dallo sgomento per quanto accaduto sulle coste calabresi in questi giorni, il nuovo numero de La Civiltà Cattolica sembrerà un numero pensato e scritto dopo il naufragio costato così tante vite. La verità ovviamente, come spesso accede, è diversa. La complessità dei testi appena divulgati e che saranno pubblicati domani, sabato 4 marzo, ci dice che sono stati pensati e redatti prima, con ogni probabilità molto tempo prima. Si inseriscono infatti in un’operazione tutta dedicata alla riflessione su questi dieci anni di pontificato bergogliano.
Se in un certo senso questo toglie attualità agli scritti, dall’altro ne aggiunge, perché ci dice quanto l’accaduto non sia un accadimento imprevedibile, ma parte di una dinamica in atto da tempo e di cui Francesco ci parla da anni. Questa dinamica non riguarda, ovviamente, la dinamica dei fatti, ma la logica con cui ci si relazione alla cosiddetta emergenza-profughi C’è infatti una visione, una cultura direi, che slega, disconnette “i barconi”, l’ultima tappa di un percorso a volte di anni, dal percorso. Da cosa partono? Perché lo fanno anche così? Perché si portano anche i bambini? Al di là di alcune affermazioni incredibili e dolorosissime per mancanza di consapevolezza, quelle per cui sarebbe stato più giusto fermarsi a cambiare il proprio Paese piuttosto che fuggire, l’idea prevalente e ribadita in queste ore è che si dovrebbe impedire ai mercanti di morte (che certamente tali sono) di compiere le traversate in cui queste persone vengono portate, come bestiame, verso un approdo che potrebbe anche essere la morte. Questa idea, che coglie un traffico infame, rimuove il pregresso: torture, lager, persecuzioni, desertificazioni, terrorismo, guerre devastanti, umiliazioni aberranti. E l’assenza, a fronte di questo, di corridoi legali.
Questo nuovo quaderno de La Civiltà Cattolica ha due articoli in tutto o in parte afferenti a questa disastro. Iil secondo, quello in tutto afferente al tema di cui ci occupiamo, è intitolato “Papa Francesco. Dieci anni di viaggio con migranti e rifugiati”. Ma preferisco partire dall’altro, dedicato ai letterati che maggiormente hanno influenzato Jorge Mario Bergoglio. Non sapevo che il pontefice fosse un appassionato lettore di Virgilio, impressionato da Enea. L’articolo è un’autentica operazione culturale, avrà richiesto mesi e mesi di studio e approfondimento. Lo firma il direttore padre Antonio Spadaro, e qui conta sottolineare questo passaggio che ci porta ad anni in cui ancora non era pontefice, ma arcivescovo di Buenos Aires, partendo da un testo che scrisse nel 2008: “In particolare, Bergoglio fa riferimento a Enea, il quale, «davanti a Troia distrutta, supera la tentazione di fermarsi a ricostruire la città e, prendendo in spalla suo padre, comincia a salire il monte verso una vetta che sarà la fondazione di Roma».
Questa immagine è indelebile nella mente del Pontefice. È una icona. L’anno successivo, in una sua ampia conversazione con Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, disse dell’eroe virgiliano: «Attenzione, la pazienza cristiana non è quietista o passiva. È la pazienza di san Paolo, quella che implica portare sulle proprie spalle la storia. È l’immagine archetipica di Enea che, mentre Troia brucia, si carica il padre sulle spalle – Et sublato montem genitore petivi –, si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro». Queste due citazioni del poema virgiliano sono la spia del fatto che quest’opera ha fatto molto riflettere il futuro Pontefice. Fermarsi è una tentazione: Enea assume il rischio di partire, di salire, e di farlo portandosi in spalla l’anziano padre. Si può, dunque, cercare il futuro solamente caricandosi sulle proprie spalle il passato, la storia, la memoria. Da Pontefice, Francesco ha pienamente ripreso questa eco virgiliana, rivelando quanto l’Eneide abbia inciso nel suo immaginario”. Non colpiscono la visione, l’attualità, la consapevolezza? Non si coglie il senso della presenza di vecchi e bambini?
Siamo così all’articolo citato in precedenza, quello relativo ai viaggi di Francesco con migranti e rifugiati, firmato da Michael Schopf S.I. e Amaya Valcárcel Silvela. Comincia con questa citazione di Francesco, tratta dal suo colloquio con i migranti ospitati dal Centro Astalli, la sezione italiana del Jesuit Refugee Service. “ Ognuno di voi, cari amici, porta una storia di vita che ci parla di drammi di guerre, di conflitti, spesso legati alle politiche internazionali. Ma ognuno di voi porta soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere. Molti di voi siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze! La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti! Viviamo la fraternità!” Ripensando a quanto letto, si sente in lontananza la eco di quel “sublato montem genitore petivi… Che non c’è, non figura il riferimento al prendersi Anchise sulle spalle, ma quell’ “ognuno di voi, cari amici, porta una storia” assume così un significato, almeno un sapore di significato diverso. Ed è sempre la vicenda virgiliana, la vicenda di Enea fondatore di una nuova città e civiltà, la nostra, che viene subito in mente leggendo che una donna siriana in quell’occasione disse al papa: “I siriani in Europa avvertono la grande responsabilità di non essere un peso. Vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società. Vogliamo offrire il nostro aiuto, il nostro bagaglio di competenze e conoscenze, la nostra cultura nella costruzione di società più giuste e accoglienti nei confronti di chi, come noi, è in fuga da guerre e persecuzioni. Noi adulti possiamo sopportare ancora altro dolore, se questo serve a garantire un futuro di pace ai nostri figli. Chiediamo per loro la possibilità di andare a scuola e crescere in contesti di pace”. Sapeva che il papa ama Virgilio?
E’ importante restare alle battute iniziali di questo lungo articolo perché Francesco ha certamente sviluppato l’attenzione a questo fenomeno dandole centralità nel suo magistero, perché i tempi lo hanno richiesto. Ma la comprensione del fenomeno e delle sue cause era già lì, in quanto aveva detto già diversi anni addietro Giovanni Paolo II: “ Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2018, intitolato «Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace», Francesco chiedeva, nel suo tipico modo diretto: «Perché così tanti rifugiati e migranti?», e ricordava come diversi anni prima san Giovanni Paolo II avesse additato «il crescente numero di profughi tra le conseguenze di una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di pulizie etniche”. Constatava inoltre come, dal momento che gli esseri umani hanno il desiderio naturale di una vita migliore, anche la povertà e il degrado ambientale siano fattori che spingono a migrare. Si capisce dunque che non avevamo solo un campanello d’allarme, ma l’indicazione di un’emergenza, poi divenuta tragedia globale. E si arriva al viaggio con cui ha inaugurato il suo pontificato, quello a Lampedusa, dove disse: “siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri”. Per il Papa, “quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito […]. Siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”. E ancora così? Le parole con cui per la prima volta in questi giorni si sono colpevolizzate le vittime segnano un errore o un “salto di qualità”?
L’articolo ci spiega come in “Laudato si’” il papa, evidenziando che i profughi oggi siano causati da guerre e catastrofi ambientali causate dai mutamenti climatici, abbia elaborato un discorso nuovo, quello appunto dell’indifferenza. Il seme gettato a Lampedusa è diventato così un caposaldo della sua predicazione. Un discorso che non poteva non portare alla “cultura dell’incontro”. E’ quanto il papa elabora e spiega quando arriva il drammatico biennio 2015/2016, di cui è in certo senso protagonista la rotta balcanica, e la pulizia etnica di massa messa in atto in Siria in particolare, ma non solo ovviamente. Non a caso il papa a quel tempo andò a Lesbo, dove giungevano i fuggiaschi cacciati dalla Siria dal loro esercito, dal loro presidente e dai suoi alleati. “A Lesbo il Papa ha affrontato direttamente il grave rischio dell’indifferenza e dello sfruttamento, ma ha anche sottolineato la gentilezza e la bontà – di cui spesso non si sa nulla – che molte persone mostrano quando incontrano migranti che si trovano in una situazione disperata”. Paragonando un tale incontro a un tesoro nascosto, Francesco scava ulteriormente, per ricavarne l’idea della cultura dell’incontro, dicendo: “Tutti sappiamo per esperienza quanto è facile per alcune persone ignorare le sofferenze degli altri e persino sfruttarne la vulnerabilità. Ma sappiamo anche che queste crisi possono far emergere il meglio di noi. Lo avete visto in voi stessi e nel popolo greco, che ha generosamente risposto ai vostri bisogni pur in mezzo alle sue stesse difficoltà. Lo avete visto anche nelle molte persone, specialmente giovani, provenienti da tutta l’Europa e dal mondo, che sono venute per aiutarvi”.
Il passo successivo, accompagnato dalla trasformazione dell’ufficio vaticano competente in un Dicastero di enorme peso specifico nell’ambito della Curia, è stato quello di proporre un’azione agli Stati, alla società civile e alla Chiesa basata su quattro pilastri: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
Una completa presentazione di questi dieci anni non può dimenticare la denuncia della tratta di esseri umani. Lo sapeva dall’inizio del suo pontificato, quando disse anche che nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e che molti hanno le mani che grondano sangue, ma nel 2016 è andato più avanti: “ Nel 2016 ha esortato a sradicare la tratta e il contrabbando di esseri umani, perché queste nuove forme di schiavitù vanno considerate crimini contro l’umanità”.
Nel 2018, ricordano gli autori, il papa si è soffermato su un’altra piaga della quale raramente ci si occupa, quella degli sfollati interni. Il lavoro è proseguito a lungo, arrivando nel 2020 a un documento pontificio che è stata abbastanza trascurato, per la scarsa attenzione a questa tragedia nella tragedia, visto che non si riversa su di noi: il varo degli orientamenti pastorali sugli sfollati interni.
L’articolo ovviamente prosegue ed estende la lettura di un aspetto fondamentale di questi dieci anni di pontificato sul quale proprio oggi non si può non soffermarsi.
https://www.globalist.it/tendenze/2023/03/03/i-dieci-anni-di-francesco-con-i-migranti-e-i-rifugiati/
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