Aldo Moro, nonostante i tanti anni dalla sua scomparsa, torna ad insegnarci una via: quella dell’instancabilità politica. Approccio metodico, quest’ultimo, che differenzia i fedeli nel fine dagli apatici alla morte.
Nel primo gruppo certamente è riconducibile l’ex Presidente del Consiglio italiano ucciso dalle Brigate rosse negli anni settanta del secolo scorso; nel secondo, invece, chi usa le guerre (e non serve altro da aggiungere).
C’è una domanda a cui un credente cerca di dare risposta ovvero come sia possibile giustificare la guerra per definire rapporti di tensione tra Paesi, come ad esempio Russia e Ucraina, che si sono sempre definiti “fraterni e fratelli”.
L’unica riposta possibile a cui la ragione riconduce è il seme della semplicità. Un grande critico d’arte (Sgarbi) ha definito la fede come una sorta di necessità dei semplici.
Essere tali significa minus habens?
No, essere semplici significa guardare la vita con il fine del valore di essa.
Essere semplici sta all’amore come la politica alla pace.
È però necessario chiederci, a questo punto, se la pace stessa sia semplice o difficile.
Un credente sa che la pace è un concetto semplice, ma arduo da realizzare se attorno il campo è minato da tensioni inutili, negative, non fruttuose di buoni rapporti.
Allora la pace è un concetto culturale. Qualcosa a cui l’umanità non va abituata, ma educata.
L’abitudine alla pace implica il suo opposto cioè il rischio di rimessione delle persone alla sopraffazione del guerreggiante.
Torna alla mente, in via essenziale, il grande lavoro che fece Aldo Moro, con altri illustri, nel 1975 quando si giunse agli Accordi internazionali di Helsinki.
In quel momento storico, addirittura, Usa e Urss furono concordi nel ritrovarsi attorno a principi insuperabili che poi costituirono la base della OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa).
Se si legge il preambolo di quel testo partorito dalla Conferenza di Finlandia, i Paesi sottoscriventi vollero basare il tutto su un principio-fine. Espressamente scrissero che andava assicurato ai popoli di “godere di una pace vera e duratura, liberi da ogni minaccia o attentato alla loro sicurezza”.
La guerra oggi in Ucraina, perciò, rappresenta un tradimento non tanto di una regola-obbiettivo (in quanto tale), ma di una “speranza umanitaria”.
Dalle domande poste sino a qui, tuttavia, rimane ancora aperta una finestra: fino a che punto la persona umana legittima la scelta bellica del potente governante difronte alla sconfitta della propria libertà e del fratello aggredito?
È questa la falla enorme che c’è sul piano educativo di quei Popoli che non reagiscono, endogenamente (cioè all’interno del proprio contesto socio-politico), alla scelta di chi ha potere senza esercitarlo perseguendo i patti siglati verso quanto di più alto: evitare le morti per effetto di guerre.
Eppure ad Helsinki, nel 1975, fu forte la necessità di proteggere la pace non abituando i Popoli ad essa, ma dando loro gli strumenti per comprenderla e incarnarla nelle dinamiche statali tanto che a questo tema fu dedicato appositamente un capitolo: il n. 4 su “Cooperazione e scambi nel campo dell’educazione”.
Allora, non possiamo che pregare per la sofferenza degli ucraini (affinché cessi quanto prima) senza dimenticare anche quella dei russi sia inconsapevoli che consapevoli. Dobbiamo farlo da persone che credono nella redenzione dei responsabili e nel perdono. Perché anche questo è un fine per la pace e della pace.
Ed è quest’ultimo che, come fu per Aldo Moro, indica la strada buona della metodica politica. Instancabilmente.
(giurista – Martina Franca)