Camaldoli (Arezzo)
La domanda di guerra caratterizza le economie e le politiche della guerra stanno diventando il pilastro del sistema socio-economico attuale. Lo ripete come un mantra Papa Francesco che non smette di denunciare produzione e commercio delle armi. Ma la sua non è una percezione. E’ un’analisi precisa di tutti i dati di un sistema che funziona per la guerra e adatta ad essa quotidianamente le economie. Lo chiamano “warfare state”, concetto non nuovo, ma finito nell’oblio, opposto al “welfare state”, sviluppo dell’industria bellica come elemento determinante delle scelte economiche al posto di quelle per sanità, istruzione, lavoro, partecipazione. Oggi gli investimenti nello “Stato di guerra” registrano performance assai migliori di quelli nello “Stato del benessere”. E accanto va messa l’ossessione per la sicurezza, alimentata dal mito della difesa della democrazia e dell’Occidente. Poi c’è la ben nota funzione “anticiclica” della guerra, cioè distruggere per ricostruire, un volano perfetto. Insomma siamo immersi già in un’economia di guerra, dove la paura, lo scontro come unico risultato del conflitto, la ricerca di sempre più sofisticati meccanismi per la costruzione del nemico, lotta di etnie, rissa tra nazioni, disfatta di governo globale delle crisi, sono considerati un bene anche per la salute delle democrazie. La domanda di guerra affascina e pochi sono quelli che s’ingegnano a decostruire la retorica della sicurezza in vista della costruzione di un’economia di pace, l’unica che può mettere la parola fine alla terza guerra mondiale a pezzi e sbaragliare la logica dell’odio e della paura. A Camaldoli la scorsa settimana le ragioni del deterioramento della pace globale, come conseguenza di investimenti altamente vantaggiosi in armamenti e come cambiamento di molti paradigmi, sono state indagate nel corso di un laboratorio politico organizzato dal Centro studi economico sociali per pace di “Pax Christi”, in collaborazione con la sezione italiana della Fondazione “Les amis du Monde Diplomatique”, la prestigiosa rivista francese di geopolitica: dal linguaggio alla finanza alla diplomazia, dai costi ambientali alle ripercussioni nei media con incremento delle propagande belliche, dall’avanzare di regimi autoritari ai sovranismi a fiaccare le democrazie. Un piccolo gruppo di studiosi e di attivisti di movimenti e associazioni che non si rassegnano all’ineluttabilità delle cose per tre giorni hanno ragionato sui guai e le cause di un “conflitto globale che è nell’ordine delle cose possibile”. Le parole di Paolo Cacciari, già assessore alla pace del Comune di Venezia, attivista dei movimenti sociali e ambientali, hanno costretto a gettare lo sguardo sulla ricerca ossessiva del sistema globale dei cosiddetti “vantaggi competitivi” innescati dall’avidità e della guerra. Ne è esempio clamoroso il fatto che ormai Elon Musk venga ricevuto dai governi come un capo di Stato, segnale inquietante di un potere economico pervasivo in grado di sottomettere le istituzioni. I fatturati stratosferici dell’industria delle armi sono la parte più dinamica della finanza globale e del governo del commercio mondiale. Anche la politica si è attrezzata con un repertorio praticamente infinito della giustificazione dei conflitti, fino a provare a rendere automatico l’aumento della spesa militare. Il procedimento è infido e spesso ingannatore. La trappola della sicurezza consente di arruolare nelle giustificazioni ampi settori delle opinioni pubbliche, affascina l’elettorato e rischia oltretutto di rendere più deboli le democrazie. E cambia i paradigmi. Si cerca la pace finanziaria per accumulare più ricchezza, la diplomazia serve a rassicurare i mercati non ad evitare massacri. Non è la guerra la causa dei morti, ma la politiche di espansione economica basate sulla guerra. Emilce Cuda, teologa argentina e segretaria della Pontificia Commissione per l’America Latina ha spiegato che il debito generale accumulato dagli Stati è un ostacolo alla pace globale e un formidabile strumento nelle mani della finanza canaglia, più volte denunciata da Bergoglio, di cui il sistema militare industriale è parte. Ma rovesciare il tavolo è difficile. La metà degli oltre 2400 miliardi di dollari che si investono in armi vengono da banche, assicurazioni, fondi pensioni. Così il “welfare state” viene sgominato dal “warfare state”, il benessere dalla guerra. Basterebbe una finanzia più etica? Aldo Soldi vice-presidente di Banca Etica ne è convinto, ma la battaglia è ardua e diventa impossibile quando i governi invocano la clausola della sicurezza: “Se le armi servono per difendere la democrazia vale la pena investire in armi”. Una fregata multiuso costa come lo stipendio di un anno di 11 mila medici, un sottomarino nucleare come 9180 ambulanze. Con la guerra si guadagnano cifre spaventose e la finanza armata è responsabile, secondo vari studi, del 40 per cento della corruzione globale. Il mercato finanziario, già abbastanza opaco, quando incrocia il sistema militare industriale diventa oscuro. Ma nessuno fa passi indietro. Le prime 12 banche armate al mondo sono americane in grado di orientare politiche governative e fondi sovrani. La guerra in Ucraina ha fatto schizzare in alto ogni valore. Si chiama capitalismo dei disastri e ne sono tutti consapevolmente soddisfatti. Meno qualcuno: un pugno di volonterosi e Papa Francesco.
Alberto Bobbio, vaticanista
Articolo pubblicato da L’Eco di Bergamo