Geopolitica umana di Diego Fabbri: un’analisi profonda della complessità globale, di Antonio Salvati

Lo sappiamo. La quantità di informazioni che caratterizzano la sfera pubblica di oggi, diversamente articolata da social media, internet, televisione, radio nelle varie forme di streaming e on-demand affollano le nostre giornate, il nostro tempo.
Nel mondo globale di oggi, si ha la sensazione di vedere tutto quello che si vuole e di poter raggiungere tutto. Essere raggiunti da tante notizie, non vuol dire elaborare un pensiero o una visione. Non dobbiamo confondere le informazioni con la conoscenza. In altri termini, vediamo tanto, ma senza comprendere profondamente, o peggio, senza possedere una visione. Abbiamo tante informazioni ma privi di una cultura che le ordini e le filtri, che dia le priorità, che tracci una prospettiva. Ciò aumenta lo spaesamento e provoca false impressioni.
Un recente volume di Diego Fabbri, Geopolitica Umana. Capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne, offre un’«inedita variante per analizzare le cose del mondo» attraverso il metodo geopolitico che in Italia i più anziani conoscono per via di Limes, la rivista italiana di geopolitica, fondata e diretta da Lucio Caracciolo. Attenzione, la geopolitica umana non studia le relazioni internazionali, ma – avverte Fabbri – studia l’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico «calandosi nello sguardo altrui». Oggetto della sua analisi sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù, póleis, comuni. Fino all’epoca corrente, dominata dagli Stati-nazione, dagli imperi.
«Mai i singoli individui. Tantomeno i leader. Ritenuti irrilevanti, mero prodotto della realtà che pensano di determinare. Nella migliore accezione, soggetti che incarnano lo spirito del tempo». Tante le questioni trattate. Imperialismi, migrazioni, forme di governo, Stati-nazione, il potere dei popoli e della rete. Fabbri sviluppa considerazioni accattivanti, molte delle quali vanno ben oltre le comuni convinzioni. La geopolitica umana  deve riconoscere il principio di causalità tra gli eventi, esercizio complesso. Nell’interpretare la realtà deve guardare «oltre la scenografia, smettere il velo di altri approcci. Economia, politologia, diritto non riescono a considerare il tutto, perché non possono tollerare d’essere soltanto una parte dello scibile».
L’economia è persuasa dall’idea che bisogni e interessi regolino l’agire umano. Non sa decifrare le azioni volutamente contrarie al perseguimento dell’utile materiale, «non sa afferrare il valore dell’identità, del sentimento e della gloria (categorie che accendono il movimento delle nazioni). L’economia si racconta come stella polare di ogni aggregazione. Non intuisce d’essere prioritaria soltanto nei Paesi che sono satelliti di un impero, mai nelle potenze indipendenti, egemoni o antagonistiche». Non coglie che le principali potenze del pianeta vivono in modo perfettamente antieconomico.
La politologia, invece, «non sa tagliare la struttura dalla sovrastruttura, il fenomeno dagli orpelli. Puntualmente, scambia l’ideologia per il principio della storia, la narrazione per i fatti. Si concentra sullo strumento, sul sogno, perdendo di vista l’esistenza. Crede nella preminenza dei leader, semplici membri delle collettività che presiedono, incapaci di affermarsi contro la volontà della popolazione, pure di quelle composte da sudditi vessati. Utilizza i medesimi modelli per ogni contesto, dall’Africa equatoriale alla penisola coreana, impermalendosi poi se i conti non tornano».
Fabbri – oltre a ritenere assai utili nelle analisi politologiche discipline come la linguistica e la pedagogia alla conoscenza dell’essere umano e i suoi comportamenti – fa largo affidamento alla storia, definita il «principio di ogni speculazione». Proprio dagli esempi provenienti dalla storia dall’impero persiano fino a Cina, Stati Uniti e Russia dei giorni nostri, l’autore arriva a ridimensionare il potere effettivo dei governi, mettendo in evidenza anche l’irrilevanza dei leader, considerati non più attori protagonisti in grado di scardinare la realtà e volgerla a proprio favore ma nient’altro che «riduttori di complessità, totem intorno ai quali si coagula la popolazione, strumenti per rendere in dialettica le manovre da compiere». Abbiamo l’abitudine di studiare i leader nel tentativo illusorio di leggere i fatti del pianeta.
Ne analizziamo il profilo, i gesti, il comportamento, la retorica, aspirazioni politiche e tendenze sessuali per intuire dove condurranno una specifica collettività. In realtà, per Fabbri sono pressoché ininfluenti. Poche volte la loro esistenza incide sulla traiettoria delle nazioni. Sono espressione del milieu culturale, «non ne sono artefici, cavalcano i sentimenti popolari, non li inventano, seguono il percorso fissato dalla popolazione, non lo determinano. Credere il contrario è un drammatico abbaglio. I capi si rivelano capaci quando intercettano le sotterranee pulsioni di una comunità, diventandone alfieri, quando comprendono le tendenze della congiuntura internazionale, impegnandosi a sfruttarle o schivarle. Se pensano di decidere la propria epoca finiscono umiliati dalla storia, se credono di imporsi sugli eventi si scoprono travolti».
Più della loro biografia, conta la burocrazia statale, «classe inossidabile che gestisce la cosa pubblica, incaricata di elaborare politiche domestiche ed estere, indifferente alle oscillazioni elettorali. Ancora di più, conta l’attitudine dei cittadini più umili, coloro che sopportano le sofferenze per i rovesci subiti dalla nazione, che custodiscono il senso di colpa per le ingiustizie commesse su vicini e nemici, che forniscono la demografia indispensabile al compimento di grandi imprese». I leader rivestono molteplici funzioni. Incarnano (temporaneamente) l’espressione statale, semplificano la quotidianità composta di innumerevoli processi strutturali. Si presentano all’opinione pubblica come terminale di ogni vicenda, nel bene e nel male. La popolazione assegna loro il merito per i successi collettivi, la colpa di fallimenti altrettanto generali, «riconosce la loro (impossibile) influenza su fenomeni aggregati, collocati oltre la disponibilità di un singolo individuo. Così convincendo i leader ad attribuirsi, per narcisismo o responsabilità, eventi estranei alle loro scelte». Come l’andamento economico, «determinato da condizioni strutturali generate nei decenni, dalla collocazione geografica o dal semplice ciclo capitalistico». Come le vittorie militari, prodotte dallo sforzo della popolazione, dal suo sostegno alla causa, dall’inclinazione degli ultimi a morire per l’interesse nazionale (o imperiale). Si tratta di considerazioni che possono dar luogo a dei rilievi critici.

Tuttavia, resta assai vero che, soprattutto in Italia, gli osservatori hanno l’abitudine – assecondando le istanze delle diverse tifoserie – di attribuire meriti o demeriti ai diversi leaders o governi che si susseguono. Quando poi, in realtà, fanno propri percorsi o scelte – nella politica economica o nelle relazioni internazionali, già definitesi nel corso dei decenni passati. La dimensione demografica di un paese è un fatto rilevante: «non può darsi discorso strategico intorno alle collettività senza principiare dalla condizione in cui versa la popolazione.
Anzitutto, l’età media. La potenza pertiene soltanto a comunità anagraficamente giovani. Solo una popolazione di età media bassa può sopportare i sacrifici richiesti dal perseguimento della potenza». Oggi gli Stati Uniti possiedono una vivace demografia. Dimensione decisiva, giacché ogni disfida tra potenze è anzitutto antropologica, non in senso numerico. In assenza di una bassa età media e di capacità diffuse, la sola estensione della popolazione non basta. Stando al censimento del 2020, la popolazione americana è aumentata di 20 milioni in dieci anni, un incremento del 7%. Con un’età media di 38 anni, di due anni più bassa di quella russa, di 11 anni più giovane della tedesca, medesima di quella cinese. Ma tra il 1980 e il 2020 i russi sono invecchiati di 10 anni, i tedeschi di 13, i cinesi di 18, gli statunitensi di appena 8 anni. Nel 2035 l’età media della popolazione russa dovrebbe toccare 44 anni, quella cinese 46, quella tedesca 51, mentre quella americana 40. A determinare tale effervescenza, il continuo arrivo degli immigrati e la prolificità dei loro discendenti.
Nell’ultimo decennio la popolazione statunitense di origine ispanica è cresciuta di 12 milioni, per 62 milioni totali, quella di ascendenza asiatica di 7 milioni, per 24 milioni totali. L’Italia è il Paese più anziano del mondo (assieme al Giappone), con un’età media di 47,3 anni. Gli italiani vanno letteralmente scomparendo. Dal 2020 il saldo naturale tra nati e morti mostra segno negativo, con una perdita netta di 735 mila persone, la peggiore dal primo censimento unitario, destinata ad approfondirsi nel medio periodo. Di questo passo entro il 2070 l’Italia conterà 12 milioni in meno. «In proporzione, la silenziosa sparizione di Lazio e Sicilia. Con uno spaventoso clivage tra Nord e Sud». Nell’ultimo ventennio il Meridione ha perso circa due milioni di persone. Tragica realtà, resa grave – aggiungiamo – dal non saperne cogliere le conseguenze più rilevanti.
Altra considerazione capace di suscitare osservazioni critiche è sulla definizione di globalizzazione, intesa come sinonimo secco di egemonia americana, in latino pax americana. A determinare l’esistenza di un unico mercato planetario non è lo sviluppo tecnologico che consente ai flussi finanziari di attraversare la geografia, né alcuna antropologica predisposizione agli scambi.
La globalizzazione «è conseguenza della superiorità della Marina statunitense, capace di occludere il passaggio alle altre Marine negli stretti, negli istmi. Da Gibilterra a Suez, dai Dardanelli a Panama, da Bāb el-Mandeb a Hormuz, da Malacca a Bashi. Poiché nel mondo circa il 90% delle merci transita via mare, tale capacità, come capitato in passato ai romani e agli inglesi, ha trasformato il planisfero in un unico mercato». In questo senso, «la globalizzazione non afferisce in alcun modo al libero commercio. Raccontare l’unico mercato globale come intrinseco al paritario scambio di merci tra le nazioni è la glassa (leggi propaganda) della superiorità americana, non la sua sostanza. Peraltro, il libero commercio (in ideologia: liberismo) non è mai esistito, né mai esisterà». Queste ed altre considerazioni incontriamo in questo libro, utili per meglio scrutare le questioni del nostro tempo. Anche per comprendere cosa può scalfire il sistema che abitiamo, quale potenza possederà il futuro, in quali contesti si deciderà la lotta per l’egemonia, quali effetti avrà sul nostro Paese e tanto altro. Una lettura preziosa per camminare insieme nella storia e non essere culturalmente irrilevanti.

globalist.it/culture/2024/04/24/geopolitica-umana-di-diego-fabbri-unanalisi-profonda-della-complessita-globale/

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