• Professore, in quale clima politico è maturata la riforma del Titolo V della Costituzione che, dal 2001, affida maggiori competenze alle Regioni?
All’epoca ero giudice della Corte Costituzionale. Non stava – e non sta ancora – a me esprimere valutazioni di carattere politico di parte. Assumendo quel ruolo, io ho giurato di difendere e attuare la Costituzione nei compiti di garanzia dei diritti fissati dalla stessa, nel controllo di costituzionalità delle leggi ordinarie, nei rapporti tra gli Enti istituzionali, nella regolazione dei conflitti. Questo ho fatto.
Ricordo, comunque, le prospettive separatiste avanzate, a quel tempo, dalla Lega di Umberto Bossi, alle quali la maggioranza formata dai partiti del centro-sinistra reagì con un maggiore decentramento di funzioni alle regioni. Già la legge ordinaria n. 59 del 1997 andava in quel verso, che però abbisognava di una base costituzionale per acquisire maggiore solidità.
La scelta politica fu quella della riforma costituzionale a cui lei fa riferimento: una riforma varata da una maggioranza a scarto ridotto, a fine legislatura, in tempi rapidi e quindi senza una adeguata ponderazione della portata. È mancato a quella maggioranza, soprattutto a riforma approvata, il tempo per mettere a punto una legge di attuazione: per cui – pressoché da subito – la risoluzione dei problemi insorgenti tra lo Stato e le Regioni è stata demandata alla Corte.
L’unica valutazione politica – storica – che mi sento quindi di poter fare è che, appunto, con quella riforma, si è cercato di rispondere alle istanze separatiste che si erano affacciate al nord del paese, ma senza un preciso disegno politico conseguente.
• Cosa è cambiato?
Di fatto è aumentata la confusione istituzionale con l’esplosione dei conflitti di competenze tra lo stato e le regioni: il culmine penso sia stato toccato con le vicende del tempo della pandemia che tuttora fanno discutere, anche sotto il profilo giudiziario.
L’articolo 5 della Costituzione diceva e dice ancora: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Ciò è stato fortemente modificato perché – se in precedenza la competenza legislativa spettava in linea di massima allo stato – e alle regioni erano solo delegati alcuni, pochi, specifici compiti legislativi – il principio è ora stravolto. La riforma ha fissato, limitandole, le competenze esclusive della legislazione statale, ampliando, al contrario e molto le competenze concorrenti tra lo stato e le regioni. Così, su moltissime materie, allo stato compete ora dettare i principi e il quadro generale, mentre alle regioni spetta la declinazione locale dettagliata dello stesso quadro, senza peraltro il necessario richiamo all’interesse nazionale.
Il tutto va posto nel mantenimento della distinzione tra Regioni a Statuto Speciale e Regioni a Statuto Ordinario, tuttora previsto dalla Costituzione. Ricordo che le radici della natura dello Statuto Speciale regionale – attribuito a Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta – affondano nelle particolarità delle situazioni di frontiera, ovvero nella storia delle aspirazioni separatiste (Sicilia), oppure delle crisi di povertà vissute nel nostro Paese (Sardegna). Altro e diverso problema è quello di valutare se e in quale misura sia ancora giustificata tale distinzione. Desta perplessità il cosiddetto “regime differenziato” dei residui fiscali, a favore delle regioni con maggiori entrate.
Vanno considerate inoltre le conseguenze – affatto indifferenti – del piano fiscale: la riforma non ha previsto la priorità dell’interesse nazionale quale parametro di fondo al riguardo.
• Leggo che l’art. 5 aggiunge che la Repubblica «attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». La trasformazione non ha inteso forse dare forma a questa parte dell’articolo?
Certo, questa è la norma costituzionale che ha dato luogo – peraltro con molto ritardo – alla istituzione delle Regioni (1972). Ma quel che io voglio qui mettere in evidenza è il capovolgimento – o quasi – della filosofia costituzionale originaria, fondata sulla distinzione tra legislazione statale e regionale.
La tendenza di cui sto dicendo è stata accentuata dalla modifica dell’articolo 116 che, ferma restando la configurazione delle Regioni a Statuto Speciale, ha previsto la possibilità di attribuire alle Regioni – con legge ordinaria – ulteriori competenze, su altre materie, da parte dello Stato.
Detto articolo, comma II, recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali». Le materie toccate riguardano oggi l’organizzazione della giustizia di pace, l’istruzione, la tutela dell’ambiente, i beni culturali e altro ancora: materie certamente non secondarie e non riconducibili ad una prospettiva di carattere prevalentemente locale.
Quanto è stato aggiunto non ha fatto altro che creare problemi di interpretazione circa le effettive competenze sulle tante materie in gioco: è spettato alla Corte Costituzionale dirimere i problemi. Cito qui – ad esempio – il caso della materia ambientale, di sicuro interesse nazionale ma con rilevanti implicazioni locali.
• La riforma ha dunque dato la stura alle differenziazioni regionali: con conseguenze importanti per la vita dei cittadini italiani?
Le regioni più attrezzate – proprio per effetto dell’articolo citato – hanno chiesto e concordato tutta una serie di attribuzioni, sino al trasferimento in blocco di alcune materie: più di quanto fosse nell’animo dei legislatori costituenti e degli stessi riformatori costituenti. Si è instaurata, ormai, una sorta di trattativa permanente: non solo tra lo stato e le regioni, ma anche tra la singola regione e lo stato.
In questo modo il Parlamento finisce per avere un ruolo semplicemente notarile di presa d’atto di ogni accordo che venga raggiunto. Mentre aumenta il distacco tra le regioni più dotate di risorse e quelle meno, con evidenti e diversificati riflessi sulla vita reale dei cittadini. Quanto è avvenuto – e sta avvenendo – è particolarmente problematico dal punto di vista costituzionale.
Rischia di venir meno il principio di sussidiarietà e solidarietà tra enti, caro pure al magistero sociale della Chiesa?
Il principio di sussidiarietà – costituzionalmente – è attuazione del principio di solidarietà e contempla la facoltà di supplenza di un ente rispetto ad un altro ente che non sia in grado di garantire i diritti costituzionali fondamentali. Pertanto, sono previste una sussidiarietà verticale, qualora l’ente gerarchicamente superiore si riservi di esercitare il compito che l’ente inferiore non sia in grado di offrire, una sussidiarietà orizzontale laddove i corpi intermedi organizzati della società civile e i singoli cittadini si assumano compiti che lo Stato e gli enti locali vogliano loro affidare.
Il principio di sussidiarietà pone dunque il problema dei giusti equilibri tra Enti istituzionali: tra loro e nel rapporto con le formazioni sociali intermedie. Purtroppo, come ho detto, con la riforma del 2001, la declinazione del principio si sta risolvendo in una trattativa speciale tra lo stato ed alcune regioni privilegiate. Mi sembra che siamo piuttosto lontani dalla declinazione auspicata dal magistero della Chiesa. Aumenta, di fatto, lo scarto tra chi sta meglio e chi sta peggio: il che è proprio il contrario di quanto vorrebbe la carità evangelica e la fraternità di cui sta parlando papa Francesco.
• Quali sono le tutele costituzionali che dovrebbero permanere, in ogni caso, in ambito sanitario e sociale?
La materia sanitaria sta sotto la copertura costituzionale dell’art. 3, che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». La cura della salute è dunque un diritto di ciascun cittadino e, insieme, un interesse della collettività. Sottolineo l’individualità voluta dal Costituente: da ciò la necessità di definire i Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria (L.E.A.) da garantire, appunto, a ciascun cittadino.
Nel mentre, l’art. 38 dà copertura alla materia sociale: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».
La Costituzione distingue dunque due tipi di protezione individuale, specie a malati, anziani, fragili, ai “diversi”, ai migranti e agli indigenti: protezioni sanitaria e sociale (o socio previdenziale). La prima fa capo all’art. 32, la seconda all’art. 38.
Non nascondo, da ex giudice costituzionale, quanto distinguere tra prestazioni di carattere sanitario – di per sé meglio classificabili tecnicamente – e prestazioni di carattere sociale – più discrezionali – sia affatto semplice. Ricordo soltanto le diatribe che hanno accompagnato e tuttora accompagnano le prestazioni cosiddette sociosanitarie, così rilevanti oggi per l’assistenza agli anziani.
La riforma costituzionale del Titolo V ha inteso affrontare il problema – appunto – con i L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria) e quindi con i L.E.P. (Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali) concernenti i diritti civili e sociali. Tali Livelli andavano e vanno – di per sé – garantiti, a ciascun cittadino, su tutto il territorio nazionale.
Ma la soluzione individuata non ha trovato attuazione. E il problema è rimasto e resta. L’individuazione dei Livelli Essenziali – sia sanitari che sociali – spetta allo Stato che in ciò non è riuscito, specie in ambito sociale.
Naturalmente – cosa non di poco conto – sulla definizione dei Livelli Essenziali si fonda il contributo dello Stato alle finanze regionali e, parimenti, l’impiego delle risorse regionali allo scopo.
Sta di fatto che, attorno ai Livelli Essenziali, si è sviluppata gran parte della confusione istituzionale e della conflittualità esistente. Diritti sanitari e sociali avrebbero dovuto, a mio parere, entrare in un’unica categoria fissata dalla Stato con una propria legge: cosa mai avvenuta. Per tale ragione, una qualche e variegata definizione delle prestazioni essenziali si è attuata solo per via legislativa regionale o è stata affidata alle scelte amministrative di province e comuni, singoli o aggregati.
I vuoti e gli scarti geografici sono risultati particolarmente evidenti nel tempo della pandemia, ma erano già presenti e segnalati dalle difficoltà di una adeguata assistenza alla popolazione anziana del nostro paese: una popolazione sempre più anziana come dicono tutti i dati demografici. La questione si è fatta sempre più urgente e non ulteriormente rimandabile.
• Si può dire che esista ancora un Servizio Sanitario Nazionale?
La storia del nostro Paese dice che il Servizio Sanitario Nazionale è nato per assicurare una assistenza sanitaria uguale per tutti, secondo il dettato costituzionale. Il S.S.N. resta, nel senso che permane il collegamento tra le risorse economiche impiegate dalle regioni e quelle contribuite dallo stato per le stesse finalità di assistenza: l’attuazione concreta del S.S.N. – nonostante gli sforzi e l’impegno degli operatori – resta uno dei problemi più gravi del nostro paese, nella frattura tra nord e sud, soprattutto dopo lo stress test della pandemia.
È indubbio che oggi il nostro sistema sanitario si trova di fronte a problemi enormi ed inediti: la situazione demografica e la rilevanza della assistenza agli anziani sono sotto gli occhi di tutti.
• Come mettervi mano, secondo lei, in risposta ai crescenti bisogni degli anziani?
Parlo ora come cittadino. Ci troviamo di fronte a una situazione assistenziale di grave impreparazione e di carenze rispetto alla assistenza agli anziani. Il tempo del Covid lo ha ampiamente mostrato. Basta pensare ai problemi nelle residenze assistenziali, ai drammi avvenuti negli ospedali, al collasso della sanità di prossimità, alla solitudine degli anziani nel morire, alla lugubre teoria dei mezzi militari usati per il trasporto delle bare. Va perciò rapidamente trovato un equilibrio tra le determinazioni legislative statali e le declinazioni a livello regionale e locale: penso al ruolo delle province e dei comuni.
Le regioni hanno vocazioni e coloriture politiche proprie, determinate dall’elettorato. E questo, ovviamente, è giusto. Ma il sistema che si è ingenerato, come ho detto, rischia di portare ad una deriva parziale, locale o localistica, indifferente alle dimensioni globali e nazionali, oltre che centrata su modelli aziendali, molto spinti per pretesa efficientistica e tecnologica.
Consideriamo le difficoltà che hanno gli anziani ad affrontare le complicazioni burocratiche e la digitalizzazione per ogni accesso ai servizi pubblici, anche e soprattutto sanitari. Non può essere questa la strada.
• Quali segnali sta mandando l’attuale governo in proposito?
Il Governo ha recentemente licenziato un Disegno di Legge delega ad hoc sugli anziani e la “non autosufficienza”, già approvato dal Senato ed in passaggio alla Camera. Questo, pur disegnando, genericamente, un futuro roseo per la categoria, non appare affrontare i nodi costituzionali a cui ho fatto qui riferimento e tanto meno risolvere il problema dei L.E.A. e dei L.E.P. per profilare una adeguata integrazione tra la dimensione sanitaria e sociale. Sembra, anzi, quasi prefigurare qualcosa di parallelo – se non di alternativo – al sistema sanitario esistente.
Senza peraltro dire nulla del reperimento delle risorse allo scopo e formulando una serie di deleghe al governo, certamente in parte dovute al tecnicismo della materia, ma che dovrebbero trovare «determinazione di principi e criteri direttivi soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti»: occorre quindi tornare al rispetto di questo articolo – il 76 – della Costituzione e quindi al coinvolgimento pieno del Parlamento. È giustificato esprimere fondati dubbi sulla osservanza delle norme fondamentali dell’equilibrio delle fonti del nostro sistema costituzionale.
• Vuole dire anche dell’altro Disegno di Legge, quello precisamente dedicato alla autonomia delle Regioni?
Il “Disegno di Legge per l’autonomia differenziata delle Regioni” in attuazione dell’articolo costituzionale riformato che qui abbiamo ricordato, è stato costruito senza alcuna valorizzazione della componente parlamentare: si tratta pur sempre di una legge di attuazione costituzionale, benché ordinaria; mi sembra una cosa molto delicata. Il testo appare molto stringato e schematico. Indica sostanzialmente un percorso lungo e piuttosto complicato, volutamente indefinito nei contenuti di approdo. Il tema dei Livelli Essenziali resta perciò ancora indefinito. Manca inoltre, anche in questo caso, un raccordo con la legge di bilancio, quindi, con le risorse su cui si possa effettivamente contare.
Occorre ricordare che la garanzia di eguaglianza nella tutela e nell’attuazione dei diritti civili e sociali per tutti è fondata non tanto su una inesistente “gerarchia” tra di essi, quanto sulla determinazione legislativa a monte – nella legge di bilancio – delle risorse economiche pubblicamente destinate alla concreta attuazione di quei diritti, secondo le scelte predeterminate e i criteri di ripartizione legislativa a tal fine.
Ripeto: secondo me, va definita, al più presto, una legge che chiarisca la vicenda dei L.E.A. e dei L.E.P. – quindi della sorte dei diritti sanitari e sociali – e della loro interazione/integrazione, con la precisazione delle risorse ad essi dedicate, nella ripartizione stato/regioni. Questa parte fondamentale non può essere lasciata ancora alle discrezionalità regionali e/o alle trattative tra singole regioni e lo stato. Il rischio evidente – o l’opinabile la volontà politica – è consolidare i privilegi di cittadinanza di chi sta meglio e le carenze di chi sta peggio.
http://www.settimananews.it/diritto/flick-autonomie-e-costituzione/