Finis Europæ?, di Manlio Graziano

Mentre in questi giorni tutti hanno gli occhi puntati su Washington, l’Unione Europea sta lentamente ma inesorabilmente scivolando verso un definitivo declino. Nel 1918, il filosofo tedesco Oswald Spengler pubblicò un libro dal titolo Il tramonto dell’Occidente; da allora fino ai giorni nostri, con La sconfitta dell’Occidente dello storico francese Emmanuel Todd, non ha fatto che ingrossarsi il coro di coloro che hanno proclamato la fine di questo impalpabile oggetto politico chiamato, appunto, «Occidente».

Occidente sconfitto
Ho scritto a varie riprese che l’«Occidente» è un concetto sfuggente che ciascuno dei paesi detti «occidentali» usa per le proprie battaglie politiche, anche contro altri paesi «occidentali».
In particolare, dopo il 1949, è stato usato dagli Stati Uniti per cooptare gli europei all’interno di un club di destini certamente condivisi, ma le cui regole erano state scritte a Washington. Ma non mi dilungherò su questo. Anzi, fingerò qui di accettare la nozione corrente di «Occidente», per dire che questo 2025 potrebbe essere l’anno in cui il club si scioglierà, con la crisi sempre più convulsa del suo fondatore e, dall’altra parte dell’oceano, la decomposizione dell’Unione Europea.
Per quel che riguarda il fondatore del club, gli Stati Uniti, Donald Trump ha gettato le basi per una rapida accelerazione della sua crisi strutturale prima ancora di entrare in carica.
La sua recente conferenza stampa è andata in questa direzione su tre fronti. In primo luogo, usando contro la Groenlandia e Panama le stesse motivazioni care a Putin (per l’Ucraina) e a Xi Jinping (per Taiwan), ha sdoganato le ragioni di quelli che erano stati presentati fin qui come i nemici irriducibili di Washington.
Aggiungendovi il Canada, ha spinto tutti quelli che erano stati presentati fin qui come gli alleati degli Stati Uniti a cercare il modo di allontanarsi il più in fretta possibile da questo ingombrante e tracotante fratello maggiore, magari andando a cercare controassicurazioni altrove. Infine, minacciando a raffica nuove tariffe doganali contro tutti, e soffiando sul fuoco della deportazione di massa di milioni di immigrati, Trump prepara le condizioni per un inevitabile collasso economico del suo stesso Paese.

La paralisi europea
Dall’altra parte dell’oceano, la Francia e la Germania sono nel tunnel di una crisi politica senza precedenti. Il 23 febbraio prenderemo la misura della febbre della Germania, che potrebbe rivelarsi più acuta di quello che i pacati commentatori politici vaticinano.
Per quel che riguarda la Francia, un segnale ulteriore della temperatura è arrivato ieri, con le reazioni al discorso programmatico del nuovo, e già obsoleto, primo ministro François Bayrou.
In breve, Bayrou ha balbettato qualche possibile passo indietro sulla riforma delle pensioni passata di forza più di un anno fa, ma le reazioni delle opposizioni di destra e di sinistra sono state comunque negative, mettendo il neo-già-vecchio-primo ministro sulla rampa della sua possibile sortita di scena.
Non è affatto detto che vada a finire così, ma se non va a finire così significa che il piano di raddrizzamento del bilancio francese è stato rimesso in discussione. Già, l’idea di moderare i termini dell’unica vera riforma strutturale – benché estremamente timida – adottata da Macron nei suoi ormai sette anni di presidenza va in questa direzione.
A dicembre, al momento della nomina di Bayrou, l’agenzia Moody’s ha abbassato il rating della Francia da AA2 a AA3 e lo spread del paese è ormai a livello di quello greco (ma ancora lontano da quello dell’Italia). Come ci ricorda Il Sole 24 Ore, l’aumento dello spread comporta meno servizi e/o più tasse, un ulteriore aumento del debito pubblico, e un costo dei finanziamenti più elevato.
La Francia è in un vicolo cieco. Macron e il suo governo ultraminoritario in parlamento sanno che è diventato indispensabile salvare il paese da un tracollo finanziario «alla Argentina», cioè dovuto, come in Argentina, a un debito fuori controllo; e sanno che l’unica via per farlo sarebbe introdurre drastiche misure di riduzione delle uscite e di aumento delle entrate (come, d’altronde, Milei in Argentina).
Le opposizioni, in particolare le opposizioni peroniste di estrema destra e di estrema sinistra, si oppongono in nome della difesa del pouvoir d’achat – il potere d’acquisto – che viene presentato e percepito come una variabile indipendente dal contesto macroeconomico, o addirittura dipendente solo dalla buona o, in questo caso, dalla cattiva volontà del presidente e del governo.
È probabile che qualcuno, tra i peronisti di estrema destra e di estrema sinistra, sappia che evitare di mettere mano alla riduzione del debito pubblico significa, come ci insegna Il Sole 24 Ore, colpire in modo ancora più drammatico e definitivo il pouvoir d’achat. Ma, se lo sanno, fingono di non saperlo perché, elettoralmente, paga di più chiedere soldi per tutti che chiedere sacrifici per tutti.
Ogni tanto occorre ricordare ai più distratti che i peronisti di estrema destra e di estrema sinistra sono maggioritari in parlamento perché la maggioranza degli elettori li ha votati – proprio come è successo tante volte in Argentina, coi risultati che conosciamo.

Gli elettori vogliono il disastro
Le Pen e Mélenchon non sono piovuti dal cielo ma sono stati scelti dai francesi in quel libero agone che si chiama elezione. Questo vuol dire che i francesi – o almeno la maggioranza tra coloro che hanno votato – li hanno mandati in parlamento proprio per fare quello che stanno facendo, cioè sabotare ogni tentativo di rimettere in sesto le finanze dello Stato. I Le Pen e i Mélenchon, dunque, non potranno comportarsi altrimenti, pena il rischio di perdere il supporto di chi li ha mandati a rappresentarli.
Finora, Macron e Bayrou non hanno tirato fuori l’artiglieria pesante. L’articolo 49.3 della Costituzione che autorizza ad aggirare il voto del parlamento è artiglieria leggera, tant’è vero che, per Michel Barnier non ha funzionato, e il governo ha dovuto dimettersi.
L’artiglieria pesante è il richiamo agli «obblighi europei»: non lo facciamo per amor nostro ma perché Deus vult, perché è l’Unione Europea a obbligarci a mettere ordine nei nostri conti pubblici. Agli occhi del cittadino medio che manda i suoi rappresentanti in Parlamento, l’Unione Europea è quella cosa fastidiosa e lontana che si intrufola fin nelle nostre case a imporci obblighi e regolazioni sulle quali nessuno ha mai chiesto il nostro parere.
In Francia, questo sentire, comune a tutti gli elettori europei, è aggravato dall’ostilità tradizionale verso la Germania, soprattutto dopo la sua riunificazione, e, più recentemente, dalla decisione della presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen – una tedesca – di procedere alla firma del trattato con il Mercosur, che i francesi, ultra protezionisti, rigettano unanimemente, destra, sinistra e centro, estreme comprese.
Il declivio sul quale la Francia sta scivolando è pericolosamente simile a quello su cui è scivolato il Regno Unito. Con l’aggravante di una situazione di bilancio più grave e di un peso politico internazionale che si sta spegnendo come un cerino consumato, con una serie di umiliazioni in Africa che non sembrano neppure essere finite. Da qui a che qualcuno possa decidersi a lanciare la bomba del Frexit manca poco.
Per ora, prevale ancora il discorso pacato sul senso di responsabilità, ma vedremo quanto dura. La combinazione tra i crescenti sentimenti antieuropei in Francia, il successo annunciato della destra in Germania e i disastri che Donald Trump sta preparando al proprio paese e al resto del mondo sembra lasciare sempre meno margini al residuo ottimismo di chi, a proposito del mitico Occidente, ha fin qui continuato a pensare che, alla fine, «andrà tutto bene».

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