Feste di piazza, di Matteo Losapio

C’è un elemento urbano che, spesso, i vecchi Piani Regolatori Generali avevano ignorato nella costruzione delle città: le piazze. Presi dall’ansia della ricostruzione post–bellica o lasciati in mano ai cosiddetti “palazzinari” le città sono state concepite come uno spazio da riempire, rispetto ad un vuoto. In questa logica di pieni e vuoti abbiamo registrato il fenomeno della speculazione edilizia, raccontano anche da Italo Calvino. Oggi, invece, assistiamo ad una nuova tendenza che, fra lotte e fatiche, iniziamo ad intravedere ovvero la piazza come elemento costitutivo di un quartiere. Entrate come elemento costitutivo di un quartiere nei nuovi Piani Urbanistici, le piazze tuttavia sono ancora in cerca di chi le abiti. L’urbanistica, in quanto scienza del governo del territorio, può prevedere piazze, aree verdi e aree attrezzate, tuttavia non è detto che questo generi automaticamente socialità. Il fatto che ci sia una piazza o che venga costruita una nuova piazza, se da una parte toglie potere di investimenti a chi vorrebbe vedere solo e soltanto palazzi, dall’altra ha bisogno, ancora oggi, di cittadini che le abitino. L’urbanistica, insomma, non può riempire le piazze, può solo costruirle. C’è bisogno di una coscienza urbana controcorrente per far sì che le piazze possano riempirsi, che le nostre piazze possano tornare abitate e abitabili. Un fenomeno di cultura controcorrente legato al tema della piazza è quello della festa. Le feste di piazza, cantate in maniera quasi malinconica da Edoardo Bennato, oggi sembrano tornare alla ribalta. Feste che, prima di tutto, riempiono una piazza, riempiono uno spazio trasformandolo in un luogo, in quanto legato ad una ritualità. La festa è sempre un momento rituale sia dal punto di vista religioso che dal punto di vista laico. E il rito è ciò che, a livello antropologico, compatta una comunità. La festa, insomma, è ciò che visibilizza e costruisce l’essere insieme. Ma una festa di piazza, oltre a riempire una piazza, rende visibile anche la piazza in sé, come luogo di aggregazione, come spazio di riappropriazione della cittadinanza, come denuncia nei confronti di tutti quegli altri quartieri in cui le piazze non sono presenti, perché non previste. Ma per fare questo non basta né l’urbanistica né le decisioni delle amministrazioni. Serve una cultura della città che ci faccia ritornare a riflettere sul diritto alla città, che significa anche diritto alla piazza, alla riappropriazione delle piazze. Perché se le piazze non diventano un diritto dei cittadini, semplicemente sono spazi vuoti, occupabili da altri gruppi, spesso criminali. Una nuova ritualità della piazza che ci spinga a fare festa, a ritrovare il senso di un vivere urbano e di un vivere anche periferico, in termini di autorganizzazione e di comunità. Per non farci rubare la piazza dal degrado, dall’inciviltà, dalla desolazione, andando controcorrente.

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