Le parole del Papa “In nome di Dio, vi chiedo: fermate questo massacro” segnano uno spartiacque tra il fermarsi e la fermezza.
Tra questi due concetti c’è il perdono.
Se pensiamo per un attimo a quel che ha rappresentato e rappresenta per gli italiani il 16 marzo, ci si riferisce al rapimento (di matrice terroristica) di Aldo Moro, potremmo trarne esperienza rispetto a quel che accade in Ucraina.
Oggi c’è la guerra, questo è vero. È l’esperienza umana più ciclica nella storia.
Se dicessimo la stessa cosa della Pace faremmo un torto ideologico perché quest’ultima non può essere (nell’immaginario comune) ciclica, ma deve essere l’obiettivo primario di stabilità esistenziale sul piano globale.
Qual è allora il motore della Pace dinanzi alle sciagure belliche e terroristiche?
Proprio il perdono (prendendo spunto da Agnese Moro, figlia dell’illustre statista italiano) è un “processo di ricerca che pone la realtà umana in confronto con il cuore del Vangelo”. È cioè un modo diverso di vivere.
Chissà se i parenti dei morti delle guerre, di qualunque parte del mondo, avranno la forza del perdono.
Noi abbiamo un compito però: portare loro la speranza. Perché si costruisca nei cuori. Anche dove non c’è democrazia. Con fermezza.
Tra il fermarsi (in riferimento alla guerra) e la fermezza appunto c’è la solennità valoriale: “io mi fermo con fermezza”;parrebbe un ossimoro o un paradosso, ma operando un processo logico ci si può accorgere di come fermarsi non significa non fare alcunché.
È l’opera umana più forte poiché implica rinuncia.
Termine che sta a rappresentare come all’annunciazione (cioè il nunzio) corrisponda alla privazione di qualcosa del sé verso l’altro o gli altri.
Difronte ai morti delle guerre come può, allora, pensarsi che la mera filosofia possa contribuire alle sorti delle drammatiche vicende a cui assistiamo ancora oggi.
Perché la filosofia se è comunitaria, non egoisticamente propagandistica, opera nella rinuncia, nella privazione, nel fermarsi.
Non è filosofia quella che, nonostante abbia pensato e ripensato, non susciti la calma, l’abbassamento dei toni, delle armi.
Chiamiamola come vogliamo, ma dove la filosofia non può arrivare c’è la teologia.
Papa Francesco non dice infatti “fermate questo massacro”, come se si ponesse da Capo di uno Stato. Lo dice in nome di Dio (da umano tra gli umani di fede). Neanche per conto di Dio (il ché implicherebbe arroganza).
È una frase così semplice, ma di portata solenne. Al pari di un valore enunciato nelle leggi, nelle Costituzioni.
Se c’è un destino comune, quello sì che è “Fratelli Tutti”.
E se le altre Chiese soffrono (in questo momento storico), ci si fermi con la filosofia lasciando spazio alla teologia solidale.
Il nostro è un Popolo in cammino perché “il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà non si raggiungono una volta per sempre: vanno conquistati ogni giorno” (enciclica sulla fraternità e amicizia solidale del 3 ottobre 2020).
Nella guerra le vittime sono sempre i Popoli.
In nome del bene, fermatevi.
Solo così si può costruire il per-dono la cui radice è nell’atto di umanità più incredibile della nostra esistenza. Anche questo però è un processo lungo in termini politici, breve in termini di fede.
Ecco il vero spartiacque.
Se conosco il perdono, non potrò volere la guerra. Il destino è valoriale. Non di valore.
Anche qui, con fermezza.
[Avvocato, Martina Franca, Taranto]