Felicità, di Bruna Capparelli

La misura della felicità è la gratitudine. Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive.
La grazia non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono».
La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire.
Nel film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella.
Il 21 marzo si celebra la giornata della felicità, festa inaugurata dall’ONU su suggerimento del Bhutan che ha sostituito il Prodotto Interno Lordo con la Felicità Interna Lorda come criterio per giudicare un Paese.
Che cosa si chiede a una persona, e quindi a un Paese, quando domandiamo se è felice? C’è una risposta trasversale capace di unire culture così diverse? Io direi: «la vita eterna», che non è la vita dopo la morte, ma quella di questa giornata o diventa eterna o non può essere neanche questa giornata. Eterna è per me l’esperienza del midollo della vita.
Marco racconta al capitolo 10 del suo vangelo che un giorno un ragazzo placcò letteralmente Cristo per chiedergli: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Voleva il manuale di istruzioni per la felicità: non si riferiva alla vita dopo la morte, che non era nel suo orizzonte umano, ma a una vita felice subito, una vita piena, dato che la sua, pur essendo ricco come specificato dal testo, non gli bastava. Per dire «vita eterna» il ragazzo usa due parolezoé (la vita che condividiamo con tutti i viventi, la vita della quale vivono piante, animali e uomini) aiònios, l’eterno in opposizione al tempo misurabile (chronos). Zoé aiònios è infatti usato nel vangelo per distinguerla dalla vita come psychè, il respiro, la vita che finisce, e infatti dalla stessa radice di aiònios viene l’avverbio greco per dire «sempre» (aieì).
La vita eterna è quindi la vita «sempre», non misurabile in respiri o giornate, una vita talmente profonda da usare il midollo osseo (non un sentimento) come controparte materiale. Di questa vita, a differenza di quella misurata in giorni e respiri, facciamo esperienza quando diciamo che il tempo vola o si ferma, espressioni che indicano infatti momenti di profonda felicità. In italiano potremmo dire che la vita degli orologi è quella dell’essere viventi, mentre la vita eterna è quella dell’essere vivi. Per la felicità non basta essere viventi, occorre essere vivi: se infatti avessimo la possibilità di scegliere se passare i nostri anni sedati e senza soffrire, o affrontando tutto ciò che la vita da svegli comporta, credo che sceglieremmo la seconda. Felicità e vita viva (eterna), midollo della vita, sono quindi in qualche modo sinonimi.
I contadini romani usavano felice per le piantearbor felix era semplicemente «l’albero che dà frutto», la pianta che raggiunge il suo scopo. Se la felicità è quindi di chi genera il suo frutto, la vita eterna, la vita da vivi, è quella in cui questo accade in ogni istante. È felice, ha vita eterna, chi dà frutto «sempre», in qualsiasi condizione. E come si fa?
Nel capitolo successivo a quello del ragazzo ricco, Marco racconta un altro episodio che mi ha sempre spiazzata. Cristo, affamato, vede un fico rigoglioso, si avvicina ma non trova frutti e, benché il testo specifichi che non era stagione di raccolta, Cristo maledice l’albero. L’indomani passando di lì i discepoli vedono che l’albero è stecchito.
Se si fosse voluto raccontare un miracolo scontato si sarebbe inventato che Cristo trova i fichi benché non sia la stagione, e invece fa il contrario: lascia un segno. Alla luce di tutti i passi in cui Cristo paragona la vita umana a un seme chiamato a dar frutto, credo che volesse rendere evidente ai suoi qualcosa che riguardava loro e non la pianta: a differenza degli alberi per gli uomini è sempre tempo di dar frutto, cioè di essere felici, non dipende da giorni, stagioni, condizioni esteriori, ma da una scelta fatta istante per istante.
Infatti a quel ragazzo che gli chiede come avere la vita eterna risponde di lasciare tutto e di seguirlo, cioè di vivere la sua stessa vita di «figlio» (colui che tutto riceve per poi tutto dare) e di non perdere tempo dietro a cose che quel giovane aveva già verificato essere insoddisfacenti. Il ragazzo non volle e «se ne andò via triste»: gli succede ciò che succede a un albero sterile, non è «felice» (fecondo) ma «triste» (infecondo).
La felicità è «vita eterna» se riesco liberamente a trasformare ogni istante in materia per essere e fare ciò che solo io posso essere e fare: creare secondo i miei talenti e amare secondo le mie possibilità, né più né meno. E se questo può accadere scrivendo, camminando, cucinando, facendo una lezione, con la febbre, con l’ansia, con la paura… e tutte le declinazioni del quotidiano, la giornata non diventa né una performance né un ostacolo, ma lo spazio-tempo dell’eterno, del midollo della vita.
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