Con la fine della Guerra Fredda, avevamo pensato (in Europa) che le guerre fossero finite. O, comunque, che avessero cambiato natura, risultando dal fallimento di uno Stato (come nel caso delle guerre jugoslave esplose nel 1990) piuttosto che da uno scontro tra Stati. Potevamo così dormire sonni tranquilli, limitandoci ad aiutare gli stati deboli a non fallire. L’invasione russa dell’Ucraina e l’aggressione terroristica ad Israele ci hanno svegliato bruscamente. Non solamente sono ritornate le guerre tra gli Stati, ma i loro effetti si sono dimostrati globali. Il dopo-Guerra Fredda è finito, ma come sarà il mondo che seguirà? Per ora sappiamo che si sta affermando un pericoloso disordine internazionale. Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan, ha detto al Guardian del 14 ottobre scorso che «stiamo attraversando il periodo più pericoloso che il mondo abbia mai conosciuto negli ultimi decenni».
Il recente incontro, a San Francisco, tra il presidente americano Joe Biden e il suo omologo cinese Xi Jinping ha rappresentato un tentativo per contenere quei pericoli (visto che si tratta dei leader delle due superpotenze). L’incontro ha consentito di riaprire i canali di comunicazione tra i vertici militari (che erano stati interrotti da più di un anno), di scambiare qualche gesto simbolico di amicizia diplomatica, ma non di più. La guerra economica tra America e Cina continuerà a proseguire, con le sue ripercussioni di sfida militare. L’America sta affrontando la sfida rafforzando la sua economia interna (in particolare la sua autosufficienza nelle tecnologie più avanzate e collegate alla sicurezza militare) ed estendendo le sue alleanze esterne. Ha scritto Jake Sullivan (il consigliere per la sicurezza nazionale) in Foreign Affairs del 24 ottobre scorso, la forza dell’America «è nella sua capacità di creare alleanze». La presidenza Biden ha così costruito una rete di alleanze in Asia, in Africa e in Medio Oriente per contrastare la Cina.
Quest’ultima, però, non se ne sta con le mani in mano. Usa le guerre in Ucraina e a Gaza per distogliere l’attenzione dalle sue strategie neocoloniali (soprattutto verso Taiwan). Usa quelle guerre anche per approfondire il solco tra l’America e il cosiddetto “sud globale”, presentando la posizione pro-israeliana della presidenza Biden come una dimostrazione del suo “double standard” (l’America denuncia il massacro di civili ucraini da parte della Russia ma non fa altrettanto nel caso dei civili palestinesi massacrati da Israele). La leadership cinese non può costruire una coalizione di Stati in funzione antiamericana (non dispone del “soft power” né è facile per i nazionalisti allearsi), ma può de-costruire le alleanze che l’America cerca di promuovere. L’America non riesce a dominare, ma la Cina non può prendere il suo posto. Di qui, il disordine internazionale.
In tale conflitto tra le due superpotenze, Xi ha un vantaggio (autoritario) su Biden. Dispone del pieno controllo della politica interna del proprio Paese, oltre che del sostegno esterno di una potenza militare come la Russia. Biden, invece, opera in una democrazia che, non solamente previene la verticalizzazione del potere (per fortuna), ma è caratterizzata da una crescente polarizzazione tra i due maggiori partiti oltre che al loro interno (la Camera dei rappresentanti, dominata dai repubblicani, ha impiegato tre settimane per nominare un nuovo Speaker in sostituzione del precedente Speaker sfiduciato dagli stessi repubblicani). Inoltre, divisa è anche l’opinione pubblica del Paese sulla posizione da tenere nelle due guerre.
Come se non bastasse, anche il principale alleato politico dell’America, l’Unione europea (Ue), continua ad essere diviso al proprio interno. Certamente, le divisioni tra le leadership europee non sono diverse da quelle che attraversano le leadership americane. La contrapposizione tra la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, radicalmente pro-israeliana, e l’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell, altrettanto radicalmente pro-palestinese, non è diversa da quella che attraversa i membri democratici del Congresso, oltre che la stessa presidenza (con centinaia di funzionari del Dipartimento di Stato che hanno preso pubblicamente posizione contro la linea pro-israeliana del presidente). Le stesse incertezze delle opinioni pubbliche europee verso le due guerre non sono diverse da quelle che attraversano gli americani.
C’è una differenza, però. Agli europei manca il sistema istituzionale attraverso cui fare emergere la posizione legittimata a rappresentarli collettivamente, oltre che le risorse per realizzarla. Il timone ce l’hanno i leader dei governi nazionali che seguono le loro distinte agende con l’inevitabile frammentazione delle risorse militari disponibili. In particolare, i leader dei principali Paesi dell’Ue sono incapaci di liberarsi dalle rispettive egolatrie per sostituirle con un sistema decisionale che consenta di promuovere una visione europea. L’Ue continua a non avere una politica estera e di sicurezza comune che possa compensare, invece che accentuare, la debolezza americana.
Insomma, dopo le due guerre in corso, difficilmente il mondo sarà come prima, mentre come prima continuano ad essere le democrazie. L’America è polarizzata tra e nei partiti, polarizzazione destinata a radicalizzarsi con le elezioni dell’anno prossimo. L’Ue è paralizzata dal suo sistema politico, paralisi destinata ad accentuarsi con i nuovi allargamenti degli anni prossimi. Più le democrazie sono divise e paralizzate, più gli autoritarismi si rafforzano. È questo il mondo che vogliamo?
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