Sappiamo poche cose. Di sicuro sappiamo, però, che il nazionalismo è pericoloso. Esso altera le interdipendenze tra i Paesi, fomentando le rivalità tra questi ultimi, con esiti imprevedibili. Eppure, oggi, il nazionalismo (economico e politico, di destra e di sinistra) definisce i termini del confronto politico. Non manca di contraddizioni interne, ma non bastano quelle per contenerlo. Vediamo le sue caratteristiche nelle due sponde dell’Atlantico. Cominciamo dal nazionalismo americano. Donald Trump ha fornito un’identità politica ad un sentimento nazionalista che aveva cominciato a farsi sentire sin dagli anni Novanta del secolo scorso. Dietro quel sentimento, ci sono gruppi sociali e aree territoriali che hanno pagato i costi del processo di globalizzazione, non disponendo degli strumenti (sociali, culturali, lavorativi) per trasformare quel processo in un’opportunità.
Ciò ha creato un sentimento psicologico di chiusura su cui è cresciuto l’humus nazionalista, connotato dal principio «il mio Paese prima degli altri». In quell’humus si sono poi inseriti attori politici e movimenti religiosi portatori di una loro agenda non necessariamente congruente con quella nazionalista. A identificare il nazionalismo trumpiano non sono le singole politiche, ma la sua visione (o risentimento) antistatale. Di qui, il paradosso che lo caratterizza. Contrariamente ai nazionalismi del passato, l’attuale nazionalismo americano è antiistituzionale e antigovernativo, basato com’è sulla critica feroce al deep state militare e di intelligence, ma anche al social state che promuove l’educazione o la protezione pubbliche. È un nazionalismo di mercato, piuttosto che un nazionalismo di stato. Tuttavia, se il nazionalismo di stato è perseguibile, assai di meno lo è il nazionalismo di mercato. Particolarmente di un mercato delle dimensioni di quello americano che non può funzionare fuori dall’interdipendenza. Per Reagan, «lo stato era il problema e non la soluzione». Per Trump, lo stato è il nemico, non solo il problema, un nemico da combattere e non già un problema da risolvere.
Vediamo ora il nazionalismo europeo. La visione antistatalista del nazionalismo americano non è facilmente mutuabile dai nazionalisti del vecchio continente. In Europa, non solamente il mercato è molto più dipendente dallo stato che in America, ma soprattutto le dimensioni dei singoli “stati nazionali” sono già troppo limitate per essere ulteriormente ridotte. I nazionalisti europei non possono essere antistatalisti, anche se il loro statalismo (nazionale) non basta più. Di qui, il rapporto ambiguo che essi intrattengono con l’Unione europea (Ue). Senza l’Ue, molte politiche di difesa degli interessi nazionali non sarebbero praticabili (si pensi alla risposta alla pandemia). Con l’Ue, molte politiche nazionaliste sono però impraticabili (si pensi ai tentativi di smantellamento dello stato di diritto in Ungheria o in Polonia prima del 2023 contrastati dalla Commissione europea o dalla Corte europea di giustizia). C’è dunque un paradosso (anche) europeo. L’Ue è necessaria ai nazionalisti ma, contemporaneamente, è da essi rifiutata. Un paradosso da cui i nazionalisti europei, di destra e di sinistra, hanno cercato di liberarsi con la banale narrazione populista, «non siamo contro lo stato nazionale (e come potrebbero esserlo), ma siamo contro le élite liberali di Bruxelles che mirano ad addomesticarlo». Per il nazionalista Giuseppe Conte, leader del movimento Cinque Stelle che è membro del raggruppamento di estrema sinistra del Parlamento europeo “The Left” (di cui fanno parte La France Insoumise o la tedesca Die Linke), la precedente Commissione di Ursula von der Leyen è stata l’espressione «dei poteri forti», così come questi ultimi continuano ad essere rappresentati dall’amministrazione di Joe Biden. Non diversamente la pensa il nazionalista Matteo Salvini, leader della Lega che fa parte del raggruppamento di estrema destra del Parlamento europeo, “Patrioti per l’Europa”. Le estremità nazionaliste si toccano, le loro affermazioni si sovrappongono. I nazionalisti hanno bisogno dell’Ue, eppure la considerano un nemico da combattere.
È prevedibile che le contraddizioni interne ai nazionalismi (americano ed europeo) renderanno difficile la loro egemonia. Tuttavia, i loro avversari non possono basarsi su di esse per contrastarli. I sostenitori dell’apertura dovranno riaggiustare il loro approccio, considerando che vi sono ceti sociali e aree territoriali che vengono penalizzati dai processi di transizione da un modello economico-produttivo ad un altro. Essi debbono fare proprie alcune tematiche nazionaliste, trasferendole ad un livello sovranazionale (in Europa) o transcontinentale (in America). Occorre pensare ad una nuova piattaforma politica con cui generare risorse e conquistare tempo, una piattaforma politica che non può che essere un’Europa e un’America economicamente e politicamente più integrate. Il nazionalismo non si combatte con l’antinazionalismo, ma con una strategia postnazionale che persegua una transizione (tecnologica, digitale, ambientale) capace di garantire, nello stesso tempo, coesione e innovazione. Insomma, il nazionalismo costituisce la sfida più minacciosa al modello di sviluppo realizzato nel secondo dopoguerra. Quel modello va difeso, costruendo però le basi transcontinentali per la sua riforma. A vecchie sfide occorre opporre nuove risposte.
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