Tra le parole educare e formare c’è una differenza sottile: la prima è l’anticamera dell’altra anche se la seconda può autonomamente reggersi in un contesto sociale a prescindere dall’aspetto educativo.
Il punto è semplice: io posso formarmi ad un determinato processo produttivo, esplicativo, relazionale senza necessità che il processo stesso sia suscettibile di sensibilizzazione rispetto al contesto (si ricordino, ad esempio, i gulag sovietici ed i campi di concertamento nazisti ove, giusto per richiamo storico, i gerarchi ordinavano uccisioni e, senza esitazioni, esse venivano svolte con tecniche orribili ma quale frutto di formazione precisa, sistemica e organizzata).
Tuttavia, per Gramsci la “cultura è un mestiere” nel senso che l’aspetto formativo è preordinato al fine educativo. In questo concetto, però, c’è un retroterra inesplorato: che per “mestierare” qualcosa (soprattutto la cultura) si innesta un processo inverso se consideriamo che il fine della esistenza non sia la supremazia o la sopravvivenza della collettività composta da persone pacifiche, ma di persone che si rendono protagoniste della tenuta della collettività in quanto società pacifica.
Ed infatti:
• nella prima proposizione primeggia la collettività (la base della teoria collettivistica e richiamata nelle teorie gramsciane);
• nel secondo caso all’apice di tutto c’è la persona umana (e su questo aspetto Aldo Moro ha delineato la sua scuola di pensiero politico).
Poste queste differenze, non per forza polarizzanti dell’esistenza, c’è un solo strumento che permette ad entrambe le formule di tendere a due fattori essenziali per consolidare nel tempo la “pace politica” e la “politica per la pace”; Don Milani, forse inconsapevolmente, lo definiva con un termine: “cura”. Il sacerdote di Barbiana non poteva immaginare come il suo metodo potesse essere quella “carezza materna” educatrice del senso politico dell’essere umano per tendere ad una dimensione alta di pace nella società con la politica.
È celebre, d’altronde, la sua frase indirizzata ad una professoressa:
“Il fine giusto è dedicarsi al prossimo.
E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o con la scuola?”
Allora, si potrebbe creare un parallelo funzionale tra la “cura della carezza” e lo “sguardo dell’attenzione” teorizzato da Aldo Moro.
Un avvicendamento dei concetti che ci porta davanti all’altare della congiunzione spirituale dei due approcci (uno spirituale, l’altro politico) dove l’avere cura è funzionale a sviluppare l’attenzione cosicché l’attenzione è il frutto di un percorso educativo contro l’avarizia; termine, quest’ultimo, che Don Milani riteneva contrapposto alla politica quale più alta forma della carità come diceva Paolo VI.
Se tanto ci dà tanto, Don Milani sta ad Aldo Moro così come la cura sta all’attenzione.
Se questa equazione ha un senso buono, ideale (non idealistico), ispiratore e, aggiungerei, “colturatore” (come l’etimologia insegna), sta a significare che l’educazione ha una ontologica funzione per l’attenzione in politica. Perché, diversamente, l’attenzione non educata con un percorso evolutivo della persona rimane una attenzione difensiva e non propositiva o risolutiva dei problemi della vita della collettività.
Quindi, quando Aldo Moro teorizzava la strategia dell’attenzione (di cui in questo libro si parla in altro capitolo) scindeva la questione in due prospettive e cioè:
• l’attenzione difensiva come incultura del compromesso tra diverse provenienze politiche;
• l’attenzione propositiva come strategia per l’inclusione responsabile delle diverse culture politiche.
Nel primo caso la politica vive nella paura dell’altro ottenendo come risultato la sopraffazione temporale di collettivi, gruppi e compagini partitiche (l’esempio classico è il cambio repentino di normazioni a seconda del colore del potere esecutivo).
Nel secondo caso la politica vive nella continua ricerca di elementi di smussatura di sé e dell’altro per un risultato superiore ad entrambi: non la sopraffazione, ma la misura delle alternative valide e possibili per l’affermazione delle politiche migliori da costruire e conservare nel tempo (esempio classico sono le norme stabili a seconda dei Governi).
C’è, pertanto, un cammino che la “cura”, per esser funzionale, percorre prima entrare nel terreno per poi seminare elementi di attenzione (morotea).
La cura si alimenta di esperienza umana e non di esperienza socio-collettiva (che appartiene al terreno dell’attenzione). Il senso della cura nasce dalla testimonianza nella micro condotta che è tipica dei nuclei naturalmente evolutisi sin da quando è conosciuta la storia umana: la famiglia è uno di questi. E per famiglia (in questo contesto di analisi) non va intesa solo quella generatrice, ma anche quella associativa, scolastica, ecc.
Se quest’ultimo passaggio ha una sua validità e un suo autonomo riconoscimento fuori dal perimetro di quanto sin qui scritto, allora, è possibile cristallizzare che la percezione di un “contesto come familiare” è la base del senso politico tendente alla inclusione.
Coniugando Don Milani e Aldo Moro si potrebbe giungere, perciò, ad un concetto politicamente nuovo: “cura dell’attenzione”.
Un concetto complesso (ma insostituibile nell’idealità da esprimere) in cui confluiscono due metodi evolutivi dell’esperienza umana: educazione e formazione.
Si tratta, appunto, della carezza materna e dello sguardo paterno che uniti tra loro formano un tutt’uno che potremmo qualificare come una sorta di “henomènon”. Seppure il termine deriva dalla storia giuridica (Sesto Pomponio – contemporaneo di Gaio nel II secolo – scrisse il “Principium” in rerum mixtura), si tratta di un passo famoso per la suddivisione in categorie dell’oggetto dei diritti:
“Tria autem genera sunt corporum, unum, quod continetur uno spiritu et Graece henomènon vocatur, ut homo tignum lapis et similia: alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se cohaerentibus constat, quod synemmènon vocatur, ut aedificium navis armarium: tertium, quod ex distantibus constat, ut corpora plura non soluta, sed uni nomini subiecta, veluti populus legio grex. primum genus usucapione quaestionem non habet, secundum et tertium habet”
Don Milani e Aldo Moro, in questa visione delle cose, sono un unicum nel senso che le rispettive teorie possono esistere di per sé sole e possono esser altrettanto funzionali per molteplici altre dinamiche e contesti sociali, ma solo insieme formano una nuova complessità che, per il rovescio della medaglia, fondano una nuova sintesi: la EuPolitica.
Quest’ultima si nutre, appunto, della radice eu (dal greco cosa buona, bene, verità, ecc.) e del termine politica (che è scienza e arte del governo).
Il significato dei due termini (quando unito) ci consegna, in definitiva, un metodo: per mestierare la politica occorrono esperienze inanellanti che, come una spirale (sforzandoci di immaginarla davvero), partono dal basso e si sviluppano verso l’alto potendo, durante il percorso della persona, intersecarsi con momenti di politica attiva (i concetti relativi alle convergenze parallele di Aldo Moro ed alle omogeneità valoriali – vedasi capitolo XII – possono essere utili).
Pertanto, consideriamo l’approccio alla vita politica come quel ragazzo che va a scuola al mattino ed a bottega il pomeriggio (per poi svolgerla in prima persona): nel primo caso egli impara la relazione con l’insegnante, nel secondo caso impara la relazione con il maestro. Seppure possa sembrare che le due figure abbiano la stessa funzione, in realtà, così non è perché:
• la scuola (come istituzione) trasmette il sapere;
• il maestro (come individuo) trasmette il saper gestire il sapere.
Anche in quest’ottica, entrambe le figure possono esistere di per sé sole, ma se unite in un unico percorso finalizzano la dimensione della persona verso la scelta politica ottimale: non solo fare le leggi, ma saperle fare in un determinato contesto e momento storico.
La chiusura inevitabile di questa riflessione sta nel fatto che l’EuPolitica non appartiene al futuro, non è il presente e non nasce dal passato. Semplicemente trascende luoghi, persone e tempo. È complessa ma, come l’universale, è l’unica via su cui l’umanità può ritrovarsi costantemente unita nell’agire politico.
Per evitare guerre, in primis.