Nell’epica omerica la giustizia non è un principio: l’idea stessa di legge (nomos) è assente. Per Omero la giustizia altro non è che la volontà degli dèi e per questo che i suoi personaggi possono essere ritenuti “colpevoli” ma non “responsabili”. Questo è vero anche se, come abbiamo scritto la settimana scorsa, con Ulisse osserviamo un cambiamento di prospettiva, una novità. Egli, infatti, non è solo ed esclusivamente in balia della volontà divina, ma può fare affidamento sulla sua virtù ed eccellenza (areté) per plasmare il suo destino. Inizia in questo modo un processo di “secolarizzazione” dell’idea di giustizia che continuerà con Esiodo e porterà dopo molto ancora all’apparizione dell’idea di legge, di nomos.
Dall’epica orale a quella scritta
C’è anche un altro mutamento fondamentale in atto da Omero a Esiodo, si tratta del passaggio dalla tradizione dell’epica orale a quella scritta. È un mutamento ancora iniziale ma certamente decisivo. Lo stile della poesia di Esiodo appare, da una parte, ancora ancorato alle tecniche dell’oralità: la versificazione e la ricorrenza delle formule esamemetriche sono le stesse delle narrazioni omeriche, eppure, come sostiene, tra gli altri Eric Hovelock: “Quando si considera la composizione complessiva sia della Teogonia che delle Opere e i Giorni, il modo in cui sono strutturate le affermazioni e il modo in cui sono messi insieme i paragrafi, ci accorgiamo di una differenza: il verso non è più controllato dal flusso narrativo; mythos non è più dominante – è presente, ma solo saltuariamente. La struttura compositiva sembra indirizzarsi ai temi piuttosto che ad una narrazione”.
Se ne conclude che “Esiodo, contrariamente a Omero, è uno che non solo canta ma che scrive, non solo ricorda ma vede ciò che sta ricordando” (The Greek Concept of Justice. Harvard University Press, 1978, p. 194). Una struttura narrativa ancora plasmata dalle necessità della trasmissione orale che però inizia, con tutta probabilità, ad essere codificata e ancorata alla fissità della scrittura. Il passaggio è cruciale per molte ragioni, non ultimo il fatto che in un quadro preletterario il personaggio, l’eroe, prevale sull’idea, sui principi. Il racconto orale è tutto azione e tradizione e l’idea astratta basata su principi impersonali “sarebbe estranea – come ancora sottolinea Havelock – al genio di un discorso conservato oralmente nella bocca di uomini che nel primo ellenismo ricordavano ma non leggevano”. Per questo, come abbiamo scritto altrove, “L’assenza, quasi l’impossibilità di un principio universale di giustizia deriva anche dalla natura di una società preletteraria, nella quale l’espressione di una regola generale risulta complicata dalla tendenza del discorso ad evitare concetti universali proprio a causa della necessità di una trasmissione orale”.
Da Omero a Esiodo
Con Esiodo le cose cambiano, dunque. Uno degli indizi più interessanti è che nelle sue opere appaiono termini che nell’epica omerica non si erano mai incontrati, o che venivano utilizzati con significati differenti. L’esempio più rilevante è, probabilmente, quello del termine “nomos” (legge). La giustizia, come abbiamo detto più volte, in Omero, ha una natura procedurale. Non è il frutto della conformità ad un principio, ma l’accordo che scaturisce da una negoziazione. Esiste dunque una “sentenza” che sancisce l’accordo; qualcosa che, però, non riesce a raggiungere una dimensione normativa. C’è infatti una pluralità di accordi su cui convergere ed è per questo che ancora il termine giustizia può essere declinato sia al singolare, dike, che al plurale, dikai. Una giustizia, molte giustizie. In Omero è la volontà degli dèi, e primariamente di Zeus, ciò che costituisce il giusto, mentre Esiodo descrive Zeus, non tanto come giudice, ma come il “primo legislatore” che “anthropoisi nomon dietaxe” (“agli uomini impose la legge). La giustizia non dipenderà più dalla volontà volubile degli dèi, ma dal rispetto di un principio, sempre di origine divina, ma di carattere più generale. Si intravede, qui, l’origine dell’idea dell’“isonomia”, della parità di ciascuno davanti alla legge. Ci vorrà ancora molto prima che la benda cali e si stringa saldamente davanti agli occhi della Giustizia, ma sembra che qui quella benda faccia la sua prima apparizione.
Un poema dedicato alla giustizia
Contrariamente a quanto era avvenuto in Omero dove il tema era generalmente sott’inteso e immerso sempre sottotraccia in una storia altra, ne Le Opere e i Giorni, Esiodo discute direttamente di giustizia che ora diventa oggetto esplicito di narrazione. Troviamo, infatti, dopo l’invocazione alle Muse, il mito di Prometeo e Pandora e la cronologia de Le età del mondo, una parte dell’opera, un poema nel poema, interamente dedicato alla giustizia. meno di cento versi ma con un’identità propria. Questa parte inizia con una favola, la prima favola della letteratura occidentale. Vi appaiono uno sparviero che ghermisce tra le sue unghie affilate un povero usignolo il quale invoca inutilmente pietà. “Ti stringe uno molto più forte: / andrai, benché tu sia valente cantor, dov’ei brama. / Di te faccio banchetto, se voglio, se voglio, ti lascio. / Chi faccia a faccia vuole lottar col più forte, è uno stolto: / vincer, non vince; ed oltre lo scorno, gli tocca la doglia. / Disse così lo sparviere, l’uccello dall’ala veloce”. L’apologo rappresenta il trionfo della hybris, l’arrogante prepotenza del più forte sancita dalla legge animalesca. A questa Esiodo contrappone la giustizia che la volontà di Zeus ha posto a regola delle relazioni tra gli uomini. Rivolgendosi al fratello Perse, infatti, afferma: “O Perse, ascolta tu la Giustizia, né mai favorire / la Prepotenza: ch’è male pel debole; e il forte, ancor esso /non la sostien di leggeri, ma sotto il suo peso s’aggrava, / quand’ei nella Follia della colpa s’imbatte. Assai meglio / vale seguir l’altra via, che guida a Giustizia: Giustizia /sempre alla fine trionfa, lo stolido impara a sue spese”.
La legge delle relazioni umane non può essere orientata all’animalesca lotta per la sopravvivenza, ma impone il rispetto dei più deboli da parte dei più forti e questo vale non solo nelle relazioni sociali, ma anche in quelle politiche. Esiodo, infatti, si rivolge tanto al fratello Perse quanto ai sovrani e ai giudici “ingordi” che “dettano inique sentenze”. Da qui l’invocazione a che si segua dike e si rifiuti la hybris. Come fa notare Hans Kelsen è quindi: “Il risentimento contro la classe dirigente [che sta] ovviamente alla base del concetto di giustizia di Esiodo. Perciò si trova nella sua opera una formula di punizione che è tipica dell’indignazione del debole contro il forte, del povero contro il ricco, quel principio secondo il quale la giustizia non è che un rovesciamento della situazione esistente, poiché la situazione esistente è ingiusta. Così Gesù predicò che ‘ciò che è altamente stimato tra gli uomini è abominio agli occhi di Dio’ e che ‘molti primi saranno ultimi e gli ultimi primi’” (Society and nature; a sociological inquiry. University of Chicago Press, 1943, p. 198).
Un ultimo tema ritroviamo in questo poema nel poema di Esiodo ed è quello dell’onniscienza di Zeus – “Ché tutto vede, ché tutto comprende”- e che, quindi rende senza scampo gli ingiusti, prima o poi. Per rafforzare questo elemento conoscitivo Esiodo fa riferimento ai trentamila “Custodi immortali, / tre volte diecimila, prefissi da Giove ai mortali, / che la giustizia sempre sorvegliano, e l’opere inique, / e girano, vestiti di nebbia, per tutta la terra”. Un tema quello della sorveglianza in funzione della conoscenza della colpa estremamente antico e moderno al tempo stesso. L’idea dei “grandi dei moralizzatori” avanzata recentemente dallo psicologo Ara Norenzeyan (Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo, Cortina, 2011) contiene entrambi questi elementi: un dio onnisciente, significativamente rappresentato in genere con un occhio che vigila, e una comunità che diffonde informazioni su colpe e meriti dei suoi membri attraverso il pettegolezzo. Un meccanismo che favorisce una governance comunitaria decentralizzata che, anche in assenza di un’autorità centrale, riesce a favorire la cooperazione attraverso il meccanismo della reputazione individuale.
Se dunque ancora il termine “diritto” in Esiodo non appare esplicitamente, certamente egli inizia a svilupparne l’intuizione. Ciò che è giusto attendersi non è solo più il volere degli dèi, dunque, o la consuetudine della tradizione, ma piuttosto qualcosa che si fonda su una ragione secolare che lo giustifica pienamente. “Qualcosa che converta la pretesa in diritto”, come ben sintetizza Anna Jellamo (Il cammino di dike L’idea di giustizia da Omero a Eschilo. Donzelli, 2005, p. 44). Perché è vero – continua – che “Lo sparviero può disporre dell’usignolo perché è più forte, ed è questa sua maggior forza a costituire il suo giusto titolo a disporre della creatura più debole, secondo la legge degli animali. Ma per gli uomini vale un altro nomos, la pretesa necessita di un fondamento diverso dalla forza”. È questo fondamento ciò che Esiodo intende per “giustizia”.
https://www.ilsole24ore.com/art/esiodo-e-giustizia-secolare-opere-e-giorni-AEO73mlC
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