A leggere l’articolo di Andrea Lanzetta pubblicato il 26 aprile 2024 su Tpi-The Post Internazionale, col titolo Accordi di Abramo. Anatomia di un fallimento geopolitico, pare di entrare in una dimensione ermeneutica per lo meno discutibile, per non dire proprio surreale, e ciò nella misura in cui l’esperto, già al principio della sua analisi, ritiene che quell’intesa inter-statale, per il solo fatto di essere stata concepita e poi realizzata, sia da giudicare come dannosa e nociva per l’equilibrio del Medioriente, come, secondo lui, dimostrato da alcune previsioni del Dipartimento per la Sicurezza degli Stati Uniti in merito agli esiti di quegli Accordi, centrate per l’appunto sulla destabilizzazione dell’area in questione e della riemergenza dell’Iran nel ruolo di difensore, insieme ad Hamas, della causa palestinese.
In pratica ciò che lo studioso mette sotto giudizio sarebbe il processo stesso di normalizzazione tra Israele e le due monarchie del Golfo, Emirati Arabi e Bahrein, il quale non avrebbe tenuto conto che avrebbe inciso in modo drastico sulle complesse (a)simmetrie del quadrante mediorientale, di per se stesse già precarie e pronte a trasformarsi in dinamiche conflittuali. Quindi, un qualsiasi lettore, seguendo pedissequamente tale ragionamento, dovrebbe ricavarne che sarebbe stato meglio non sottoscrivere quegli accordi in quanto capaci di generare nuove frizioni e sincopi internazionali e/o regionali, come poi effettivamente verificatesi.
Che gli Accordi di Abramo contenessero, per certi versi, un particolare tasso di ‘presunzione geopolitica’ e di ‘apparente’ leggerezza compositiva, non autorizza però a trascurare che fossero stati immaginati, nel 2020, come una strategia efficace di pacificazione tra Stati fino ad allora non propriamente amici, tutti, di conseguenza, ben disposti e propensi a lasciarsi alle spalle, foss’anche in nome del proprio interesse particolare, lustri di strappi e di dissidi, di divergenze e di dispetti armati. Chi – ci si chiede – era riuscito nel recente passato a ottenere un così rilevante risultato geopolitico in quella bollente piattaforma internazionale? Per questo, dunque, per aver ‘forzato la pace’ con i propri tradizionali nemici, Israele, con il placet e l’aiuto dell’amministrazione americana, sarebbe oggi colpevole, indirettamente ma consapevolmente, della tragedia occorsa al suo popolo e della reinfiammazione del Medioriente? Israele, quindi, sarebbe così ‘ontologicamente’ e ‘cogentemente’ militarista e violento da essere responsabile di ogni terremoto mediorientale addirittura anche quando individua concretamente articolazioni sinaptiche, principalmente su base commerciale, tecnologica e securitaria, con Paesi ordinariamente ostili, dimostrando non tanto e ancora di stare cercando la pace, ma di averla praticamente attuata? Israele, in definitiva, anche con queste alleanze ‘di pace’, benedette in prima battuta da Trump e poi – ma non troppo convintamente – da Biden, avrebbe, in realtà, puntato scientemente o, al contrario, troppo ingenuamente – secondo Lanzetta – a determinare un nuovo clima di instabilità e condizioni favorevoli per la rigenerazione di una mai sopita sete di guerra?
Israele, quindi, grazie agli Accordi di Abramo avrebbe commesso l’ennesimo suo peccato storico avendo preferito di battere la strada della ‘accordalità’ piuttosto che quella della ‘ostilità’? E se non avesse operato in tale direzione ‘pacificativa’, eppure fraintesa ancora una volta come contrastiva e destrutturativa, Israele non sarebbe stato, comunque, ritenuto come il solito ‘falco’ mediorientale, inabile alla concordia e incline, per struttura, all’antagonismo e alla belligeranza? A ben guardare, pare proprio che l’ipotesi di Lanzetta, più che consentire l’accesso a un’analisi il più possibile oggettiva e complessa, snoccioli ancora una volta un pregiudizio su Israele, che sarebbe così guerrafondaio da riuscire a trovare/generare la guerra anche quando cerca la pace, o, peggio, a mascherare la propria naturale tensione all’aggressività militare con la ricerca e l’ottenimento di accordi di pace, da considerare, quindi, al contrario, come vere e proprie forme dissimulate di inseminazione bellica regionale.
Ma le osservazioni del giornalista di Tpi mirano principalmente a delegittimare gli Accordi di Abramo proprio in quanto intese strategiche per la gemmazione di relazioni pacifiche e per la produzione di generale prosperità, dal momento che, trascurando o dismettendo la questione palestinese, in pratica stavano già costituendosi come il naturale brodo di coltura di future esplosioni nazionalistiche palestinesi e di riattivazione di cellule terroristiche solo temporaneamente sopitesi, ma pur sempre capaci di risvegliarsi a fronte della minima allerta regionale. Tale postura interpretativa, però, marginalizza almeno due questioni.
La prima riguarda la presenza e il ruolo giocato dai Paesi arabi-musulmani con cui Israele ha concluso quelle trattative, nel senso che dalle parole di Lanzetta sembra che sia solo Israele ad aver assunto una particolare posizione nei confronti della questione palestinese, espungendola dall’agenda delle priorità geopolitiche, forse perché direttamente interessato a circoscriverne se non proprio a negarne l’insistenza indebita sulla propria storia statuale, mentre non si sottolinea abbastanza che anche gli Stati ordinariamente sostenitori della causa palestinese evidentemente avevano concepito quelle intese come un modo per sterilizzare definitivamente una ragione fondamentale di ‘dis-accordo permanente’ con quello Stato, Israele, ormai da loro considerato come un fattore indispensabile per la stabilità dell’area mediorientale, in vista di un congedo progressivo degli Usa da essa, e quale alleato insostituibile capace di garantire un ombrello militare protettivo, frutto del possesso israeliano di sistemi d’arma ad altissimo tasso tecnologico.
Israele, per dirla diversamente, non firma da solo, con se stesso, quegli accordi, ma proprio con quegli Stati che avevano costruito la propaganda, interna ed estera, anti-israeliana, anti-americana e contro-occidentale particolarmente sulla presa in carico e sulla difesa strenua della causa nazionale palestinese, e che, probabilmente, a un certo punto della loro storia, hanno inteso mollare sia perché così annosa da risultare sfiancante e costosa, e quindi inutile da perseguire, sia perché politicamente ed economicamente ormai subordinata ad altri interessi ‘domestici’ più corposi, rimarchevoli e redditizi, oltre che strategico-internazionalmente più vantaggiosi. Questi Stati, in pratica, optando per tali accordi e per un rinnovato positivo rapporto con Israele, potrebbero aver ritenuto che fosse arrivato il momento di scegliere il futuro piuttosto che rimanere impantanati, con la questione palestinese, in un passato inestricabile, per di più non proprio, che si sarebbe potuto comportare per le loro economie e per i propri popoli come vere e proprie sabbie mobili, inibitive di inedite soluzioni tattico-diplomatiche internazionali e ostruttive di più aggiornati e ‘liberali’ scenari tecno-finanziari.
La seconda questione, del tutto omessa o comunque non posta troppo lucidamente da Lanzetta nel suo pezzo sul fallimento (implicito) degli Accordi di Abramo, concerne la posizione assunta dall’Iran. Mentre per l’analista di Tpi era già scritto in quei patti che l’Iran avrebbe riacquisito una parte fondamentale nel gioco tensivo mediorientale proprio in virtù della ripresa da parte sua della difesa di quella causa palestinese, così vergognosamente ignorata dagli Stati firmatari degli Accordi, primo fra tutti ovviamente Israele, in effetti, e al contrario, molto più concretamente e meno ideologicamente l’Iran avrebbe solo sfruttato, in modo propagandistico e strumentale, il proprio patrocinio ‘musulmano’ della lotta palestinese per disarticolare e frantumare quel nuovo paesaggio internazionale regionale in via di armonizzazione dal quale risultava del tutto estromesso e isolato. E soprattutto per impedire, in modo netto e radicale, l’atto finale di quel processo di pacificazione e normalizzazione dei rapporti di Israele con le monarchie del Golfo – oltre che con alcuni stati del cosiddetto Mediterraneo allargato –, rappresentato proprio dalla ratifica dell’intesa, tecnologica e securitaria, tra Israele e l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammad bin Salman, emersa progressivamente in corrispondenza della sottoscrizione degli accordi dello Stato ebraico con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, e, a seguire, con il Marocco e il Sudan.
Gli Accordi di Abramo, dunque, piuttosto che essere giudicati come fallimentari perché, trascurando la questione palestinese, era implicito che avrebbero riconsegnato all’Iran una certa forma di protagonismo nella difesa di quest’ultima, dovrebbero essere valutati innanzitutto per quello che effettivamente sono e si propongono di essere, ovvero uno strumento di stabilizzazione dell’area mediorientale (e mediterraneo-allargata), foss’anche in nome di soli interessi economici, che possano, però, indurre all’esaltazione di relazioni pacifiche, invece che ostili, sulle quali, come è chiaro che sia, è più facile costruire rapporti economici multilaterali e trasversali, soprattutto tra Paesi che prima si guardavano in cagnesco e che, all’occorrenza, non mancavano, certo, di graffiarsi militarmente in modo incisivo e risoluto. Ed è in questa prospettiva analitica e in questo scenario neo-relazionale regionale che va inquadrato il ruolo dell’Iran, quale, dunque, destabilizzatore seriale e cronico proprio dell’orizzonte di pace disegnato dai Paesi firmatari degli Accordi di Abramo e di quelli, come Arabia Saudita e Qatar, che non solo erano sulla strada della loro sottoscrizione (soprattutto il primo tra essi, che probabilmente avrebbe fatto da apripista per il secondo), ma ne condividevano l’implicita filosofia politica di base di carattere anti-iraniano, che in particolare stava convincendo Riad ad accettare da Israele non solo promesse di sostegno allo sviluppo di un proprio programma nucleare civile, ma anche la garanzia – consacrata dagli Usa – del proprio inserimento in un imponente e complesso meccanismo di difesa, fondato, tra le altre cose, sull’acquisizione di sistemi d’arma di ultima generazione, israeliani quanto statunitensi, in grado di proteggerla da eventuali attacchi missilistici – e non solo – provenienti dalla canaglia repubblicana islamica.
In virtù di quanto appena espresso, è oltremodo evidente che non gli Accordi di Abramo in quanto tali, specificamente per il modo in cui sono stati ideati e concretati, sono stati capaci di produrre e sovralimentare tensione lì dove, invece, si proponevano di suscitare pace e fecondità economica, tanto da poter apparire, come li si vuole ora rappresentare, per l’appunto inefficaci e rovinosi, ma l’Iran e la sua volontà specifica di mantenere uno stato di guerra permanente, in ragione del fatto che, in una condizione di pace, quale quella materialmente seppur transitoriamente posta in essere dai suddetti accordi, esso non avrebbe trovato e continuerebbe a non trovare alcuno spazio e tantomeno convenienza economica e politica. Ciò che ha palesemente irritato Teheran, con una probabilità prossima alla certezza, non è stato, quindi, il trascuramento da parte dei patti arabo-israeliani della questione palestinese – che quasi certamente questi ultimi pur supponentemente immaginavano di far riassorbire ‘di fatto’ e ‘implicitamente’ dalla positività di rinnovate relazioni economiche tra Stati storicamente rivali, anche e proprio a causa di una loro disaccordalità sul problema di un dimensionamento statuale del popolo palestinese –, bensì il raggiungimento dell’obiettivo di una pace reale, a sfondo per di più anti-iraniano, da cui Teheran stessa non avrebbe potuto trarre beneficio alcuno, se non, al contrario, marginalità politica e neo-clausura economica.
È, dunque, la tangibile normalizzazione e pacificazione dell’area mediorientale – conseguita con gli Accordi di Abramo, a costo di lunghe ed estenuanti trattative, ora pubbliche, ora soprattutto sotto traccia e ingarbugliate, quando non proprio a prezzo di intese sul filo di lana e in condizioni comunque di latente e ‘indimenticabile’ storica conflittualità, superata, semmai, solo a seguito di capriole politico-economiche inimmaginabili da parte degli attori principali di tali nuove alleanze – ad aver provocato e innervosito la Repubblica iraniana, convinta che mai la guerra ‘islamica’ contro Israele, incardinata principalmente e simbolicamente nella permanenza eterna dell’irresoluzione della questione palestinese, avrebbe potuto trovare un suo termine. Di fronte a una pace di fatto, che Israele e gli altri protagonisti della contemporanea ‘alleanza abramitica’ hanno così radicalmente cercato e ottenuto sul campo, Teheran, al contrario, ha risposto volendo fortemente la guerra, innescandola surrettiziamente, per il tramite di Hamas, suo foraggiato, con i multi-pogrom del 7 ottobre 2023, rivendicativi, in modo strumentale e propagandistico, delle ragioni territoriali rimontanti alla causa palestinese, e ai quali era del tutto inconcepibile che lo Stato ebraico, per la brutalità contro-umana con cui sono stati condotti – e, si oserebbe dire, colpevolmente troppo poco comunicata pubblicamente da Israele, al punto da essere derubricata, nelle analisi geopolitiche o giornalistiche, per di più mono-orientate, a mera forma fenomenologica di legittima resistenza armata rispetto all’‘occupante’ ebreo-israeliano – non rispondesse con determinazione e incisività.
La convinzione, quindi, che, diversamente dall’analisi di Lanzetta, gli Accordi di Abramo non solo siano riusciti nel loro principale intento di far assaporare la pace tra Paesi storicamente ostili per molteplici ragioni etno-politiche e religiose, al punto da scatenare le ire di Teheran, incapace di digerirle e di accettare la propria conseguente posizione marginale nella cornice geopolitica disegnata da quell’inedita alleanza arabo-israeliana, ma che addirittura abbiano ottenuto risultati duraturi, nonostante la loro ‘pratica’ transitoria sospensione – senza, però, che gli Stati sottoscrittori degli stessi abbiano mai smesso di interloquire fra loro e di intendersi su strategie comuni da adottare anche se non in modo ufficialmente evidente –, è ricavabile dalla reazione all’attacco scenografico montato dall’Iran contro Israele. Infatti, nella circostanza appena richiamata, prodottasi nella notte tra il 13 e il 14 aprile 2024, lo Stato ebraico, oltre a rispondere con le proprie forze all’aggressione iraniana, ha potuto solidamente contare sull’ausilio di altri Stati. Sicuramente su quello della Giordania, che in tal modo ribadiva la propria funzione contenitiva assegnatagli dagli Usa e certificava la propria ‘amicizia’ con Israele, sopportando anche il pericolo di coinvolgimenti militari del proprio suolo oltre che le minacce dei Pasdaran iraniani.
Ma se era oltremodo prevedibile, anche se non immediatamente scontato, il concorso di Amman alla difesa di Israele in funzione contro-iraniana, vista anche la sua partecipazione – tecnicamente non ufficiale – al sistema di difesa regionale denominato Mead (Middle East Defence Alliance), molto meno sottinteso e assodato era da considerare l’intervento di supporto a Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, in quanto entrambi i Paesi comunque avevano preso almeno pubblicamente/ufficialmente le distanze dallo Stato ebraico sia al momento delle pluri-incursioni di Hamas e soci nei kibbutz israeliani al confine con Gaza, il 7 ottobre 2023, di cui ritenevano implicitamente/indirettamente causa Israele in ragione della sua ordinaria indebita occupazione dei territori palestinesi, sia nelle fasi successive di reazione dello Stato ebraico, attraverso la condanna convinta e sonora della sproporzione della controffensiva israeliana rispetto soprattutto all’innocente popolazione civile palestinese.
È innegabile, quindi, che il peso degli Accordi di Abramo si sia fatto sentire in una misura non trascurabile in tale circostanza, in cui si poteva anche dare l’ipotesi che Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita potessero legittimamente e razionalmente evitare di coinvolgersi così ‘partigianamente’ rispetto al tanto contestato Israele, soprattutto post-7 ottobre, in quanto divenuto, grazie anche alla loro narrazione politica, esso stesso lo Stato aggressore e criminale per eccellenza, se non proprio genocida. E invece Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – l’uno strutturalmente partecipe della neo-alleanza abramitica e l’altro troppe volte in prossimità di entrarvi –, nonostante il loro posizionamento nel teatro geopolitico mediorientale, hanno contribuito con le informazioni fornite dai loro servizi segreti, con i loro sistemi di intercettazione radar e attraverso un’oculata gestione del proprio spazio aereo, a proteggere il ‘nemico-alleato’ israeliano, e ciò all’interno di un complesso quanto effettivo ed efficace ombrello di difesa regionale, che Biden ha ereditato, senza mai metterlo in discussione, da Trump e su cui hanno esercitato un’influenza indiscutibile per l’appunto gli Accordi di Abramo, sia direttamente, in relazione agli Emirati Arabi Uniti, sia indirettamente in ordine all’Arabia Saudita, la quale, pur formalmente estranea a tali patti, sostanzialmente ne partecipa condividendone soprattutto la direttrice – israeliana quanto americana – di tipo anti-iraniano. Orientamento dimostrato soprattutto attraverso la moderazione con cui Mohammad bin Salman sta gestendo la complicata situazione della Striscia di Gaza, evitando toni da guerra santa e codici linguistico-espositivi antioccidentali, contro-americani e antisionistici. Riad, infatti, sa benissimo, al pari dei propri Stati-satellite, che il nemico da battere non è Israele, con cui, al contrario, sarà necessaria, quanto prima, la strutturazione di un’alleanza il più possibile duratura soprattutto in funzione anti-sciita/contro-iraniana, ma l’Iran, che già con la regia fornita all’attacco nei confronti di Israele da parte di Hamas l’ha costretta a rinviare, seppur temporaneamente ma comunque indeterminatamente, l’ufficializzazione della propria intesa – quasi certamente proprio all’interno della giurisdizione pattizia ‘allargata’ degli Accordi di Abramo – con lo Stato ebraico, giudicata ormai necessaria sia per la propria sopravvivenza statuale, minacciata dai gruppi terroristici finanziati da Teheran, sia per il proprio futuro economico-tecnologico, dipendente in misura crescente dalle iniezioni innovative provenienti dai laboratori di ricerca israeliani.
In ultima istanza, quindi, è possibile ritenere, sulla scorta di quanto ampiamente, seppur parzialmente, articolato in questa sede, che se si vuole per forza di cose sostenere che gli Accordi di Abramo abbiano fallito per il solo fatto che in essi sia coinvolto Israele, considerato incapace attraverso di essi di portare le tanto auspicate pace e prosperità e oramai giudicato, preventivamente e a prescindere, colpevole di qualsiasi tensione e bruttura avvenga in Medioriente, e anche perché, trascurando e marginalizzando la questione palestinese, tali patti abbiano riconsegnato all’Iran il ruolo (pan-islamico) di difensore dei palestinesi, allora bisogna cedere e accettare a-criticamente e in modo ‘neo-religiosamente’ laico la precipua componente ideologica e pregiudiziale adottata da tale visione nei confronti dello Stato ebraico. Ma se, al contrario, si vuole adottare una prospettiva più concretamente geopolitica e disincantata, allora si potranno individuare, pur nella partecipazione umana emotiva al dolore trasversale che caratterizza in modo oggi preponderante le relazioni tra il popolo israeliano e quello palestinese, tutti quei segnali che testimoniano quanto gli Accordi di Abramo, contrariamente a tutta una retorica/teorica uni-cromatica, non certo filo-/pro-israeliana, non solo siano stati voluti proprio da Israele e dagli Stati tradizionalmente a esso ostili per realizzare quella pace di cui mai Hamas o Hezbollah o gli Houthi, e tantomeno l’Iran, non conoscono né il nome né la consistenza semantica né l’applicabilità alle aree geo-antropiche in cui insistono, ma siano stati capaci odiernamente di costruire un nuovo design geopolitico che, escludendo l’Iran e tutti i Paesi e i gruppi para-militari a essi legati – che si auto-alimentano esistenzialmente attraverso la perpetuazione della guerra e del terrore – proprio attraverso la promozione di iniziative e progetti di collaborazione commerciale, turistico-culturale, tecnologica e di intelligence, stiano in definitiva ponendo le basi per l’elaborazione concreta di nuove architetture mediorientali. Nelle quali sia troppo evidentemente visibile, a prescindere da interpretazioni univocamente pessimistiche e ossessivamente anti-israeliane/anti-ebraiche per partito preso, l’effetto lungo d(egl)i (Accordi di) Abramo, sotto la cui egida non solo le diatribe storico-etniche, ma anche quelle religiose tri-monoteistiche possono trovare se non completa estinzione, per lo meno una nuova forma di convivenza non necessariamente conflittuale.
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