In concomitanza con la distribuzione del cartaceo n. 133 di Cercasi un fine; ospitiamo qui l’articolo di Federica Spinozzi, previsto, inizialmente, per la versione cartacea. Grazie all’Autrice —–
Suddite o cittadine? Tenterò di esprimere qualche pensiero al femminile, perché ritengo che non sia la stessa condizione quella della donna e quella dell’uomo, in nessun contesto, in nessuna condizione di vita, a partire proprio dal rapporto con lo Stato. Non si tratta di una rivoluzione linguistica, certamente importante ma rischiosa, dalle parole ai fatti la strada è lunga, bensì di una presa di coscienza reale e oggettiva. Essere cittadine non è equipararsi agli uomini, non è raggiungere il loro status, piuttosto prendere atto della diversità e restare nella diversità con consapevolezza.
Essere cittadina donna non vuol dire sedersi sullo scranno del presidente del Consiglio e pretendere di essere chiamata Presidente: ciò è negare le diversità e pertanto essere considerata alla pari del maschio. Essere cittadina donna non vuol dire pretendere di occupare spazi educativi pubblici e privati rinunciando alla presenza maschile e farsi “belle” per aver scalzato padri, maestri, professori, presidi. Essere cittadina donna non vuol dire stare dentro una Chiesa gerarchica e continuare a tacere, senza rendersi conto che tale condizione nutre una cultura italiana maschilista sempre più pericolosa. Tutto questo non mi interessa, grazie.
La condizione di suddito, di sottoposto, tipica del mondo militare e gerarchico, per lunghi secoli ha escluso del tutto la donna, relegandola a ruoli neppure classificabili. Serva, ancella del focolare, madre di figli di uomini, femmina il cui valore era dettato dalla sua bellezza, dalla sua capacità riproduttiva, dal suo essere cuoca, ordinata, pulita, parsimoniosa. E di conseguenza alla donna è stato dato il volto di strega, non solo nel Medioevo, come causa e giustificazione di ogni male individuale e sociale. Poi ad un certo punto della storia il mondo maschile ha compreso la necessità della donna nella cura: donne infermiere, donne maestre, donne alle quali è stato concesso un ruolo extra famigliare e naturalmente sottopagato e coordinato da maschi. Per gli esempi potrebbero servire fiumi d’inchiostro, ma è già sufficiente con poco comprendere che declinare le parole al femminile non è solo un’operazione estetica; dietro ogni parola c’è un mondo cosparso di silenzi, di ingiustizie, di vittime.
Non è il tempo di piangersi addosso e attendere scelte dall’alto, piuttosto di svegliarci dal torpore talvolta protettivo in cui viviamo; non è bene indignarsi solo quando una donna con un volto e un nome a noi conosciuto resta schiacciata: è ipocrita, è sterile, è inutile. In quanto donne nella società, nella chiesa, nell’intimità della nostra casa vogliamo essere donne cittadine a tutti gli effetti e denunciare ogni forma di sudditanza sin dalla tenera età. Prendere coscienza della realtà ed educare i più giovani alla bellezza della diversità e alla ricerca di una inedita armonia è una sfida irrinunciabile. In Italia ciò è profondamente complesso, forse come in nessuna parte del mondo, per l’influenza millenaria della Chiesa gerarchica, ben lontana da quella evangelica; ecco perché è difficile scindere la realtà statale da quella cattolica, al di là del proprio credo. L’Italia è figlia del cattolicesimo, o meglio sorella; e la Chiesa deve esserne consapevole e prendere in seria considerazione il ruolo della donna al suo interno, dal quale dipende il passaggio da suddita a cittadina.
[docente scuola superiore, Senigallia]