L’intervento del direttore dell’Osservatore Romano che ha aperto il convegno su don Primo Mazzolari alla Tre giorni mazzolariana: la parola che interroga. Una coppia di parole e di idee: poesia e profezia per riflettere in particolare sulla questione del “laicato”, del ruolo dei laici nella Chiesa che mi sembra uno dei grandi temi del pensiero di Don Primo.
Poesia, quindi. Può sembrare strano questo “attacco”, ma non lo è. Io sono un giornalista, direttore di un giornale e anche don Primo, con la sua rivista Adesso, lo è stato e quindi le parole per lui erano molto importanti. Ora parola che ci interroga, che ci interpella, quella che alla fine ci spinge all’azione (interiore ed esteriore) è la parola del poeta, ed è la parola del profeta. Sono queste parole le “spine nel cuore” (poi ritroveremo questa immagine) che mettono in movimento.
Su questo tema della potenza della parola, hanno scritto in tanti, anche illustri teologi, come ad esempio Karl Rahner (penso ai suoi due libretti su Sacerdote e poeta e Letteratura e cristianesimo) e quindi non pretendo di dire cose nuove e degne di nota, ma spero utili in questa condivisione sulla figura di uno delle anime cristiane più avventurose (e anche tragiche per certi aspetti) del ventesimo secolo.
Poesia e profezia dunque, si potrebbe dire: poesia è profezia. Tutto sta a intendersi su cosa sia la poesia ovviamente, che non è una serie di belle parole, magari in rima, usate come ornamento della vita. Della dura vita, quella vera. No, la poesia ha a che fare proprio con la verità. Il punto è che viviamo un‘epoca storica che si potrebbe definire, “l’epoca dell’an-estetico”. Nel doppio significato di “anti-estetico”, cioè “brutto”, il rifiuto della bellezza e di anti-dolorifico, cioè lo stordimento, il rifiuto della sofferenza. E invece bellezza e dolore stanno insieme, lo sappiamo bene. Lo sapeva bene Joseph Ratzinger quando afferma che “la bellezza ferisce”. E più di recente sempre Benedetto xvi ebbe a dire che «La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine». Ecco qua: la vita come risposta, risposta ad una chiamata e a una domanda.
La parola che interpella, che chiama da una parte e quindi la vita come vocazione. In questo doppio movimento si situa il ruolo della bellezza come ferita, drammatica e feconda, generativa. Perché la ferita scuote, risveglia, interroga appunto, interpella e uso questo verbo che richiama subito un’altra parola molto cara a Mazzolari, e ad ogni cristiano: la coscienza. La bellezza come scossa, come diceva Platone, come shock provvidenziale, una scossa di cui la società, quella di Bozzolo e dell’Italia degli anni di don Primo e quella di oggi degli anni di Papa Francesco, hanno urgente bisogno.
La figura del Papa sarà continuamente sullo sfondo di questa mia riflessione; è infatti impressionante vedere quanti punti di contatto esistano tra i due, il sacerdote della periferia di Bozzolo e il pontefice venuto dalla periferia estrema, dalla fine del mondo. Nel Diario di Mazzolari leggiamo una frase che è, alla lettera, trasferibile in uno dei tanti discorsi in cui Papa Francesco ha fatto riferimento alla poesia; scrive don Primo: «Bisogna nascere poeti e sapersi serbar tali per non disdegnare la cura d’anime in campagna. Senza poesia non c’è fede, senza poesia l’apostolo muore» (Diario ii, p.382). Non ho avuto il tempo di fare una ricerca nel discorsi di questi dieci anni di pontificato ma è evidente l’importanza, cruciale, della poesia per Francesco, e basta andare indietro di pochi giorni e vedere ad esempio che il 27 maggio scorso parlando agli artisti e scrittori invitati a convegno dalla Georgetown University e dalla Civiltà Cattolica, ha confidato che: «Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero.
Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino […] L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in profondità̀, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro, l’amore, la morte e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. E, in questo senso, ci aiuta a «carpire la voce di Dio anche dalla voce del tempo» […] L’arte è un antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità, è una sfida al nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose. E in questo senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica, con una carica “rivoluzionaria” che voi siete chiamati a esprimere grazie al vostro genio con una parola che protesta, chiama, grida. Oggi la Chiesa ha bisogno della vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare». Parole di oggi di Francesco, ma è evidente la consonanza con l’avventura di don Primo.
Questa dell’amore per la poesia non è di Papa Francesco ma proprio di Bergoglio che nel 1981 scrive la prefazione a una raccolta di poesie del gesuita argentino Osvaldo Pol e in particolare afferma che: «La parola poetica ha dimore di carne nel cuore dell’uomo e — al tempo stesso — sente il peso di ali che ancora non hanno spiccato il volo». E qui spunta un altro tema grande, che non prendo se non come spunto, “al volo”, quello della carne, così caro a Francesco (che già nell’omelia del 12 maggio 2013 affermava: «E questo si chiama: “toccare la carne di Cristo”. I poveri, gli abbandonati, gli infermi, gli emarginati sono la carne di Cristo»), ma anche a don Primo che in una lettera a Piero Imberciadori, collaboratore di Adesso, inviata da Bozzolo il 10 novembre 1958, scrive: «Abbiamo un Papa di carne e tutto il mondo ne è sollevato. La paternità non è un sentimento aereo: tant’è vero che il Figlio dell’Uomo è il Dio fatto Carne» (cfr. Mazzolari, misericordia a bracciate, p .111 ). Il riferimento al Papa di carne è ovviamente a Papa Giovanni, eletto al soglio pontificio pochi giorni prima, il 28 ottobre 1058. Don Primo, che muore il 12 aprile 1959, se lo “gode” brevemente Papa Roncalli ma quel poco tempo gli è bastato a consolarlo e a fargli intuire la svolta imminente del Concilio Vaticano ii che lui ha anticipato ma al quale non ha potuto partecipare. Come i veri profeti, come Mosè che non entrerà nella Terra Promessa che potrà solo ammirare da fuori. Ho parlato di consolazione ed è noto che a febbraio del 1959 Mazzolari ebbe modo di incontrarsi con il Papa e fu per lui un sollievo: «Ho parlato col Papa. È un vero Padre, e la sua bontà mi ha acquietato il cuore», scrive all’amica bresciana Rachele Toscano il 5 febbraio e poi aggiunge: «Ma quante prove anche qui!».
Questa iniziativa, 3 giorni mazzolariana, in effetti cade in un momento di ricorrenze significative. Pochi giorni fa, il 3 giugno, abbiamo ricordato i 60 anni dalla morte di Giovanni xxiii . E il 21 giugno ricorreranno i 60 anni dall’elezione di Paolo vi . Su questo tornerò alla fine.
Il laicato
Prima di tornare su Montini vorrei toccare un’altro tema, che è quello del ruolo dei laici nella Chiesa. Da persona da sempre appassionato di politica non posso esimermi di dire qualcosa, giusto qualche battuta o, meglio, farla dire a Mazzolari grazie soprattutto al bel saggio di Giorgio Campanini su Don Primo Mazzolari. Un protagonista del Novecento, edito dalla Morcelliana.
Una prima battuta riprende le due parole, già citate, che sono i pilastri di una riflessione sul laicato: coscienza e libertà. Nel 1929, anno dei Patti Lateranensi, la coscienza inquieta di don Primo diventa ancora più inquieta. Annota don Bruno Bignami nel suo Misericordia a bracciate, che «La sua coscienza critica vuol porre al centro del dibattito il problema dei rapporti tra la Chiesa italiana e il regime fascista. Sogna una Chiesa che recuperi “la forza di chi non rivendica il proprio bene, ma il bene: non la propria libertà ma la libertà”» (Diario III/A p.141).
Il 3 febbraio 1933 Ester Melgari, dirigente dell’Aziona Cattolica scrive : «Ai laici, perché divengano apostoli nell’ambiente in cui la Provvidenza li ha posti — osservava ancora Mazzolari — non deve essere comunicato il nostro colore, cioè la nostra visuale quasi professionale di vedere la religione, ma la nostra anima cristiana soltanto, senza superstrutture». La Melgari rispondeva così a Mazzolari che aveva dichiarato che «Il far posto ai laici nella Chiesa è sempre stata una mia missione, non una convinzione soltanto». Una missione difficile, allora come ora, che vedeva don Primo impegnato con grande passione perché vedeva il rischio di una “clericalizzazione” del laicato. «Non simpatizzo con la maniera oggi in uso in Italia» scrive, però al tempo stesso nutre una fiducia, quella fiducia tipica del profeta che (altra cosa tipica) nega di essere: «Le esperienze e gli avvenimenti cambieranno tante cose. Quando? Non lo so perché non sono profeta: so però che dovrà essere, poiché un’Azione cattolica che clericalizza (la parola è brutta ma il significato che le do in questo momento è inoffensivo) i laici…li sposta dalla loro qualità specifica…per loro imprestare, estraniandoli quasi del tutto dal mondo in cui vivono, una nostra mentalità. ̀Non è un gran guadagno».
Da lì in poi, osserva Campanini (che cita in particolare lo scritto del 1937, la Lettera sulla parrocchia), questo sarà il filo conduttore della riflessione di Mazzolari sul rapporto gerarchia-clero-fedeli. E qui emerge un altro punto di contatto con la visione e l’opera di Papa Francesco. Con un secolo di anticipo, Mazzolari intuisce la fine della cristianità. Scrive Campanini: «Al centro della riflessione mazzolariana sta la ferma convinzione che, in una stagione caratterizzata dalla fine del regime di cristianità̀, la missione della Chiesa non possa pienamente espletarsi confidando esclusivamente nel trinomio gerarchia-clero-religiosi, ma si imponga “la partecipazione dei laici alla vita attiva dell’apostolato”. Questa attiva presenza laicale nella missione evangelizzatrice della Chiesa è possibile, a giudizio di Mazzolari, a due fondamentali condizioni: la fuoriuscita dai ristretti recinti della vita parrocchiale e l’assunzione, da parte del laicato cattolico, di un atteggiamento di lucida e responsabile autonomia. Proprio aprendosi al mondo il laicato cattolico, abbandonando il sicuro rifugio della comunità cristiana, dovrebbe essere in grado di “fare il raccordo tra la parrocchia, che è lo spirito, e le attività della vita moderna”; né costituirebbe un dramma il fatto che questa “fuoriuscita” possa inizialmente provocare qualche tensione (“non importa se, uscendo”, il laico, “ha sbatacchiato l’uscio”).
In secondo luogo si impone l’abbandono, da parte della Chiesa, della pretesa di «controllare direttamente opere e istituzioni che sono di diritto nelle mani della comunità civile», garantendo così ai laici un adeguato spazio di libertà: «I figliuoli, divenuti maggiorenni — avverte — possono pretendere a una certa autonomia ed è dovere della religione d’educarveli invece di contrariarne l’aspirazione o impedirne o ritardarne la preparazione».
Perché l’uno e l’altro obiettivo — il superamento della separatezza fra Chiesa e mondo e la promozione di un laicato responsabile — possano essere raggiunti occorre aprire porte e finestre della comunità cristiana: «Non si chiuda né si spranghi il mondo della parrocchia. Le grandi correnti del vivere moderno vi transitino, non dico senza controlli, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati. L’Azione Cattolica ha il compito preciso d’introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della Chiesa e di gettare il ponte sul mondo, ponendo fine a quell’isolamento che toglie alla Chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo».
Proprio in vista di questa apertura al mondo, a giudizio di Mazzolari occorre “salvare la parrocchia” (ma qui, come in altri passi dello scritto, è facile intravedere dietro di essa tutta la Chiesa) «dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti».
In sintesi, è necessario andare al di là del ristretto numero dei praticanti abituali, formare cristiani aperti al mondo, evitare la “clericalizzazione del laicato”, dare fiducia ai fedeli e nello stesso tempo diffidare di coloro che, “docili e maneggevoli”, secondo la caustica denunzia mazzolariana, “dicono sempre di sì”e spesso sono apprezzati e valorizzati assai più di coloro che, dotati di maggiore spirito critico, mettono in discussione la prassi corrente e dunque “creano problemi”.
Al fondamento di questa nuova stagione di irradiazione del messaggio evangelico nella storia sta, a giudizio di Mazzolari, una nuova e più autentica “spiritualità laicale”, della quale (come egli stesso confessava in un articolo di Adesso) “siamo tuttora sprovvisti”. Vi era dunque un vuoto da colmare non solo sul piano della prassi ma anche sotto il profilo della elaborazione di una nuova spiritualità del laico, costruita non soltanto sul suo essere nella Chiesa ma anche sul suo essere nel mondo».
È fin troppo facile rivedere, alla luce di queste parole, l’intero pontificato di Papa Francesco, la sua insistenza per una Chiesa in uscita, in ascolto, sinodale.
In Mazzolari, come in Bergoglio, è viva la consapevolezza dei limiti della Chiesa del proprio tempo, a lungo arroccata (in particolare durante il ventennio fascista) «su posizioni difensive e preoccupata soprattutto di “conservare” quanto era rimasto della fede, e delle sue strutture, e meno attenta all’esigenza di spalancare porte e finestre della comunità cristiana per aprire una nuova stagione di evangelizzazione. La “copertura” rappresentata dal Concordato, che molti consideravano come una sorta di baluardo contro l’ateismo e la miscredenza, appariva a Mazzolari come una muraglia che, mentre proteggeva, nello stesso tempo isolava, e lasciava la Chiesa ai margini delle correnti più vive della cultura della modernità. Persisteva in lui, sotto questo aspetto, l’eredità della parte migliore del modernismo ortodosso (quella che sarebbe riemersa, dopo una lunga glaciazione, a ridosso del Concilio Vaticano ii ), del tentativo, cioè, di riconciliare Chiesa e modernità senza nulla concedere sul piano dei valori ma assumendo un atteggiamento duttile ed aperto nei confronti di una serie di questioni in ordine alle quali era possibile cercare e trovare con la modernità un terreno di incontro. È in questo senso che a ragione Mazzolari è stato considerato, sotto molti aspetti, un anticipatore del Concilio».
Per Campanini è proprio la Lettera sulla parrocchia (1937) «il momento più alto di questa ecclesiologia aperta, per il tema dominante che caratterizza il piccolo e non fortunato opuscolo (passato quasi del tutto sotto silenzio nonostante la lucidità della sua analisi della situazione del cattolicesimo italiano): il tema, cioè, del necessario rinnovamento della Chiesa, delle sue metodologie pastorali, del suo rapportarsi al mondo, nella linea di un cristianesimo diffidente nei confronti delle concessioni, e delle interessate protezioni, del potere politico, e nello stesso tempo capace di porsi a servizio degli uomini, sia di quei “vicini” nei confronti dei quali il parroco di Bozzolo non ha risparmiato pungenti critiche, sia, e soprattutto, di quei “lontani” che spesso avevano lasciato la casa del Padre per le miopie, le chiusure, le piccinerie dei severi detentori dell’ortodossia. Sotto questo aspetto la rilettura che Mazzolari fa della nota parabola del Figliol prodigo è esemplare: solo a condizione di essere una casa aperta e ospitale la Chiesa non solo riesce a mantenere nel suo seno quanti in essa si sono formati ma a favorire il ritorno di quanti da essa si sono allontanati. Né questo era un semplice artificio retorico, ma l’espressione di una radicata e sperimentata convinzione, frutto di una pastorale “in situazione”, capace di confrontarsi con il contesto culturale della modernità».
Mazzolari si scontrava (così come oggi Francesco) contro «la fatica che ogni istituzione deve affrontare allorché è chiamata a trasferire dall’interno all’esterno — abbandonando l’istintiva tentazione dell’autoreferenzialità — il polo della sua azione».
La riflessione sul laicato investe l’intera visione della Chiesa di Mazzolari e quello che Campanini indica come “progetto riformatore”. Un progetto che si poggia su tre pilastri: la valorizzazione laicato, appunto, la scelta per la povertà, l’impegno per la pace. E quindi su tre pre-condizioni: la formazione delle coscienze; l’evitare ogni compromissione con il potere, la lotta per la libertà della Chiesa. Si avverte qui anche l’influenza del personalismo comunitario di Mounier, che lo spinge ad affermare l’esigenza, anzi l’urgenza di rompere il legame con il mondo e la cultura borghese per un cristianesimo rinnovato e capace di trasformare la società ̀ (è uscito in questi giorni un saggio molto interessante, Chi crede non è un borghese, di un giovane filosofo francese, Jean de Saint-Cheron, edito dalla Lev ).
Questa visione di Mazzolari è fondato sulla «presa d’atto che il cristianesimo è chiamato non solo ad un fondamentale compito di formazione delle coscienze (come noto, fu questo il privilegiato campo di impegno di Mazzolari, negli incontri diretti, nella guida spirituale di quanti a lui si rivolgevano, nei suoi numerosi scritti, insieme ad un forte impegno per la trasformazione delle strutture della società̀). In questo secondo ambito, Mazzolari — proprio per avere constatato quanto oppressivo fosse stato il peso esercitato dal regime fascista sulla Chiesa negli anni successivi al Concordato — metteva in guardia contro ogni compromissione con il potere e richiamava con forza l’esigenza di una piena libertà della Chiesa». Campanini riflette sulla società degli anni ’20-’40 e descrive quella come «una difficile stagione, caratterizzata non solo dal deserto della politica ma anche dal grigiore di una comuinità cristiana spesso paga dell’apparente “trionfo” — dopo sessant’anni di laicismo imperante — del Concordato e poco incline a valutarne il prezzo in termini religiosi e pastorali. Chi, come Mazzolari, metteva in guardia contro ogni compromissione rischiava di essere considerato poco meno che il disturbatore di una “quiete” faticosamente raggiunta; né si valutava appieno, anche in autorevoli ambiti ecclesiastici, il costo che la Chiesa avrebbe rischiato di pagare per la parziale perdita della sua autonomia e della sua libertà̀.
Una Chiesa attraversata dalla tentazione del quieto vivere e del conformismo rischiava di rifiutare […] tutte le voci critiche e tutte le istanze al cambiamento che pure provenivano, come nel caso di Mazzolari, non soltanto da pur importanti frequentazioni libresche (come quelle degli amati teologi e pastoralisti francesi, le cui opere furono largamente recepite nella canonica di Bozzolo) ma anche e soprattutto da una personale e diretta esperienza di azione pastorale.
Si spiegano, in questa luce — e sullo sfondo dei difficili rapporti fra la Chiesa e il fascismo che aveva proprio a Cremona, nel gerarca Roberto Farinacci, uno dei suoi esponenti più duri ed intransigenti — le riserve, le perplessità ed alla fine le condanne ecclesiastiche che, a partire da quelle che sono state chiamate le “disavventure” de La più bella avventura, colpirono ripetutamente gli scritti di Mazzolari, indussero i vertici ecclesiastici a porre limiti alla sua predicazione fuori del territorio di Bozzolo, fecero del parroco padano l’oggetto di una serie di interventi disciplinari (e, contemporaneamente, di polemiche e anche di aggressioni ad opera dei più esagitati esponenti fascisti)».
La sua fu, è un’espressione sempre di Campanini, una “difficile profezia”.
Don Primo poeta e profeta, disarmato come tutti i poeti e profeti ma forte proprio della sua debolezza, armato solo dalla fede e dalla parola che interpella e interroga.
E qui concludo tornando all’altra ricorrenza che incornicia questa bella iniziativa su Mazzolari: il 21 giugno 1963 veniva eletto Papa Giovan Battista Montini, Paolo vi . È stato già scritto molto sul rapporto tra Montini e Mazzolari e qui ora non mi dilungo. Ho cercato di tratteggiare qualcosa di don Primo evidenziando come ci sia anche una sua profezia intesa come un’anticipazione rispetto ai nostri tempi. Non ci dobbiamo meravigliare che Bergoglio è venuto qui a Bozzolo. Non poteva non farlo. E che poi lo stesso giorno è andato da don Milani, a Barbiana, due luoghi periferici. Ma il cuore lo si sente ascoltando il polso. Il centro si vede bene solo dalla periferia. Il centro lo si salva solo dalla periferia.
Il 1 maggio 1970, festa di San Giuseppe lavoratore (e qui si aprirebbe un altro aspetto molto ricco di spunti), Paolo vi ebbe a dire su Mazzolari parole toccanti e lungimiranti: «Io gli ho voluto bene. Certo…non era sempre possibile condividere le sue posizioni: camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso non gli si poteva tener dietro. E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti». Come ogni profeta e poeta, Mazzolari è stato, uso una sua autodefinizione, «uomo di pace, non un uomo in pace», che ha intuito che «L’era atomica» che lui ha vissuto sulla sua pelle (ma stiamo per viverla di nuovo anche noi, oggi), «prima di essere una tecnica è un animo, l’animo di Caino». È proprio quello che dice il Papa quando parla della umanità testarda, innamorata della guerra, vittima dello spirito di Caino. Perché ogni guerra è un fratricidio e l’unica risposta veramente alternativa è la riscoperta della fratellanza, dell’amore fraterno e dell’amicizia sociale. Perché, e qui davvero chiudo con una citazione di un grande poeta citato a sua volta da don Primo, «solo la pace conquistata con l’amore è “la casa che i soldati non potranno mai distruggere”» (C.Péguy).
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