Don Monari e don Milani, preti dalla parte degli oppressi, di Claudia Vellani

La vita di don Lorenzo Milani, morto a 44 anni per una grave forma di leucemia, è stata breve, ma ha segnato profondamente la Chiesa e la società a partire dagli anni Sessanta. Nato il 27 maggio 1923, nel 1943 il signorino Lorenzo Milani abbandonò l’agiato mondo borghese a cui apparteneva la sua famiglia, colta e laica, ed entrò in seminario. Qui cominciò energicamente a sopprimere il suo io del passato, i vent’anni che lui considerava «passati nelle tenebre dell’errore», per mettere in atto il Vangelo, schierandosi senza mezze misure dalla parte degli ultimi.
Ordinato sacerdote nel 1947, fu mandato a San Donato di Calenzano, dove scoprì quanto fossero diffuse la povertà materiale e culturale e anche la mancata o perduta cristianizzazione. Ne tracciò un’analisi precisa e approfondita, che verrà poi ulteriormente arricchita dall’esperienza di Barbiana, nel suo libro Esperienze pastorali, uscito nel 1958 e ritirato pochi mesi dopo dal commercio perché dichiarato «inopportuno».
A San Donato aprì una Scuola popolare serale per tutti i giovani di estrazione contadina e operaia di ogni tendenza politica, per farli uscire dalla loro condizione di ignoranza e sfruttamento.
A Barbiana, dove la curia fiorentina, che mal tollerava le sue scelte di apostolato e di impegno sociale, lo inviò nel 1954, creò nella canonica una scuola a tempo pieno per i figli dei contadini e dei montanari: ogni giorno, per 12 ore al giorno.
Impegnò tutta la sua vita e il suo sacerdozio per rimuovere quegli ostacoli di cui parla l’articolo 3 della Costituzione, per permettere ai suoi ragazzi di diventare cittadini-sovrani e dare ai poveri dignità attraverso il dominio sulla parola e per aprirli alla conoscenza e alla comprensione della Parola di Dio.
L’obiettivo della scuola di Barbiana, scrive il suo alunno Francesco Gesualdi «era fare di noi delle persone libere, capaci di capire la realtà, di difendersi, di partecipare, di pensare, di scegliere». Il suo insegnamento era di usare il sapere per fare trionfare il bene comune, non per fare carriera».
Per questo nasce la Lettera ai Cappellani militari in risposta ai loro pesanti insulti nei confronti dei giovani obiettori al servizio militare. Accusato di apologia di reato e rinviato a giudizio, don Milani scrive l’autodifesa Lettera ai Giudici, che afferma con forza il primato della coscienza contro i cultori dell’obbedienza acritica.
Lettera a una professoressa, frutto di uno straordinario laboratorio di scrittura collettiva in cui si denuncia una scuola che «cura i sani e respinge i malati», esce pochi giorni prima della morte di don Milani.
Tradotta e pubblicata in 23 paesi, continua ancora oggi a essere richiamata a proposito, e talvolta a sproposito, quando si parla di scuola, di dispersione scolastica, di merito e di giustizia sociale…
A tante rappresentazioni e strumentalizzazioni della figura del Priore sfugge il cuore della sua personalità e della sua opera, mentre la testimonianza di chi lo ha avuto come parroco e maestro e anche la lettura delle sue numerosissime Lettere ci restituiscono quanto la dimensione sacerdotale di don Lorenzo sia stata la radice di tutto quello che ha fatto.
Nella sua visita a Barbiana il 20/6/2017, a 50 anni dalla morte, avvenuta il 26 giugno del 1967, papa Francesco «riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa».
Don Elio Monari
Quest’anno, il 16 luglio, ricorre l’ottantesimo anniversario della morte di don Elio Monari: una guida dei giovani in tempi terribili, organizzatore di una rete di soccorso a favore di ebrei, prigionieri e antifascisti.
Don Elio Monari nacque il 25 ottobre 1913 a Riola, frazione di Spilamberto. Di famiglia contadina, fu ordinato sacerdote nel 1936; laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore, cominciò ad insegnare Lettere classiche al Seminario diocesano di Modena, e nel 1938 fu nominato assistente della Federazione Interdiocesana (Modena e Nonantola) delle Associazioni Giovanili di Azione Cattolica (GIAC): il suo impegno si rivelò prezioso, perché in quel periodo la GIAC crebbe quantitativamente e qualitativamente.
Dopo l’8 settembre 1943, si impegna nella Resistenza civile a Modena, aiutando, con il collega don Mario Rocchi, militari sbandati, prigionieri alleati, ebrei che stavano per essere deportati in Germania: insieme a uomini di diversa ispirazione politica, altri sacerdoti e gente comune di ogni estrazione sociale, riuscì a tessere le maglie fittissime di una rete di soccorso che operò dalla montagna modenese alla Bassa, portando in salvo decine e decine di persone che riuscirono ad espatriare in Svizzera o ad attraversare il fronte. Trovarono inoltre rifugio a Modena parecchi ebrei fuggiti da Ferrara.
Fino al febbraio 1944 la sua attività non desta sospetti, ma l’attenzione della polizia fascista si sposta su di lui quando usa un suo abito talare per far evadere dall’ospedale di Modena un partigiano ferito.
Lasciata Modena, si rifugia in montagna a Farneta di Montefiorino, dove diventa cappellano di tutti i partigiani della montagna, a qualunque formazione appartengano.
Il 5 luglio 1944, durante un rastrellamento e negli scontri conseguenti nella piazza principale di Piandelagotti, vede un uomo ferito, vicino ad una postazione partigiana. Don Elio esce allo scoperto per raggiungerlo e assisterlo. Mentre è chino su di lui, viene catturato da due soldati tedeschi che, vedendo la camicia militare americana kaki, gridano: «Prete, pastore, bandito!».
Trasportato da Pievepelago a Firenze nella famigerata «Villa Triste» viene torturato per diversi giorni. Viene poi giustiziato assieme ad altri partigiani alle Cascine, all’alba del 16 luglio.
Preti che vissero il Vangelo
Approfondendo la conoscenza di queste due esperienze straordinarie, è possibile suggerire dei parallelismi e delle analogie: innanzitutto la dimensione sacerdotale che, per entrambi, è stata la fonte e la base di ogni loro scelta e impegno.
Vissero il Vangelo mettendosi dalla parte dei poveri e dei diseredati che, per don Elio Monari, avevano il volto dei soldati alleati che fuggivano, degli ebrei perseguitati, dei giovani che volevano un’Italia democratica e libera; per don Milani, si identificavano nei ragazzi sfruttati nelle aziende tessili vicino a Calenzano e nei figli dei contadini e dei montanari analfabeti e umiliati di Barbiana.
Seppero entrambi precorrere i tempi e volere un cambiamento che ridesse dignità alle persone a loro affidate: liberando l’Italia invasa e umiliata dalle truppe tedesche e dal governo violento e fittizio della Repubblica Sociale, per don Monari, e attuando i principi sanciti dalla Costituzione italiana approvata nel 1948, fondata proprio sul riconoscimento di quei diritti che la dittatura fascista e la guerra avevano negato, attraverso l’impegno nella scuola e nell’istruzione civile per don Milani.
Ci sono poi alcune date significative delle due biografie che sembrano corrispondersi: gli anni dal 1941 al 1943 sono per entrambi decisivi, tanto che potremmo dire che tutto ciò che avverrà dopo sarà la conseguenza della loro scelta e della particolare vocazione a cui si sentono chiamati.
Don Elio Monari inizia nel ’41 a frequentare don Zeno Saltini che fonda l’Opera Piccoli Apostoli, per accogliere e formare ragazzi in stato di abbandono o di miseria, organizzandoli in forma familiare.
Nel 1943, in questa Opera si impegnarono una quindicina di sacerdoti e dai loro contatti e dalle parrocchie di cui erano titolari nacque il primo nucleo di quella rete di soccorso rivolta dapprima ai soldati italiani in fuga dopo l’8 settembre, poi ai soldati alleati evasi dai campi di prigionia; infine, si rivelò un aiuto anche per decine e decine di ebrei tra i quali i ragazzi di Villa Emma.[1]
Questa rete, costituita anche da tanti laici cattolici, giovani della Gioventù italiana di Azione cattolica, gente comune, uomini che appartenevano al Partito d’Azione o al Partito Comunista, trova in don Monari un punto di riferimento insostituibile.
Proprio dall’ottobre 1943, don Elio ottiene dal suo vescovo di potersi dedicare pienamente alla Gioventù, lasciando l’insegnamento in seminario ed è proprio il suo impegno tra i giovani della GIAC che gli permette di creare la rete fra le parrocchie della montagna dove si rifugiarono moltissimi perseguitati dai nazifascisti.
Anche per don Milani il 1941 segna l’inizio di un percorso originale e ben diverso da quello che la sua ricca famiglia di accademici e di studiosi si aspettava: decide di non iscriversi all’Università e di intraprendere gli studi di pittura. Inizia, in quegli anni, una profonda ricerca spirituale che lo porterà, nel novembre del 1943, ad entrare in seminario a Firenze.
Il 1943 è anche il tempo delle scelte per tutta la società italiana schiacciata sotto il nazifascismo e apre un biennio cruciale della storia d’Italia: la seconda guerra mondiale, le truppe tedesche che occupano la penisola, lo scontro tra italiani di diverso orientamento, la guerra di liberazione per far nascere un paese democratico e libero.
Queste vicende drammatiche della storia italiana, che vedono in don Monari un protagonista, non coinvolgono in prima persona don Milani che rimane in seminario fino al 1947: ordinato sacerdote, per tutta la vita combatterà contro l’ignoranza e l’ubbidienza acritica, per dare dignità e giustizia ai suoi parrocchiani più poveri.
Sia don Monari sia don Milani muoiono giovani: don Elio viene fucilato dai fascisti quando non ha ancora 31 anni, don Milani muore a 44 anni per una grave malattia.
Eppure, è stato detto che le loro brevi vite contengono in realtà molte vite ed è sorprendente vedere l’ampiezza e la generosità del loro impegno per salvare, anche se in modi diversi, tante persone.
Un altro aspetto che li accomuna è l’incomprensione che il loro apostolato coraggioso e innovativo suscita nella gerarchia ecclesiastica. In particolare, «il loro taglio netto nei confronti di un certo tipo di formazione giovanile in base alla quale molta gente ritiene di essere a posto solo perché adempie puntualmente alle pratiche religiose, salvo aver presenti essenzialmente i propri interessi e la propria carriera».
Don Elio riceve dall’arcivescovo di Modena Boccoleri una lettera che minaccia di sospenderlo a divinis se non avesse desistito dalla sua attività antifascista e di sostegno alla Resistenza.
Anche se colpito profondamente, questa lettera non lo portò ad abbandonare il suo impegno: nel maggio del 1944 si recò in montagna sia per sfuggire all’arresto sia per essere vicino ai suoi ragazzi, non dimenticando mai di essere sacerdote, pur essendo schierato con la causa partigiana.
Sempre in movimento presso i parroci della zona, don Elio celebrava la Messa quotidiana e domenicale e parlava sempre con chiarezza e franchezza nei confronti di fatti e situazioni (purtroppo non infrequenti tra i partigiani) che andavano contro i valori umani e cristiani di cui fu sempre instancabile assertore.
Don Milani, da parte sua, sperò inutilmente sino alla fine in un riconoscimento, da parte del vescovo di Firenze, della sua azione pastorale, non tanto per sé stesso, quanto per i poveri di cui aveva pienamente condiviso la condizione, affinché sentissero la Chiesa più vicina a loro.
Pur amando profondamente la Chiesa e ubbidendo sempre al suo vescovo, non ha mai cessato di richiamare tutti alla fedeltà al Vangelo e di smascherare ipocrisie e contraddizioni, come quando, nel febbraio 1967, insieme ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana, rispose alla lettera di alcuni Cappellani militari che offendevano pesantemente quei giovani che, in quel momento, si trovavano nelle carceri militari per non aver voluto prestare il servizio di leva per motivi di coscienza (l’alternativa del servizio civile ere già presente in altre nazioni europee, ma non ancora in Italia).
Don Elio non ci ha lasciato nulla di scritto, ma le testimonianze raccolte e le foto ce lo mostrano sempre sorridente: «Nel suo sorriso c’è pienezza e consapevolezza. I giovani che lo ebbero come maestro videro in questa sua serenità il viatico verso scelte difficili e pericolose, prima fra tutte quella di entrare a far parte della lotta armata, nella Resistenza».
Al contrario di don Elio, don Lorenzo scrive tanto, e con la carta e con la penna lotta per tutta la vita: eppure, continuamente, dalle sue 1.100 lettere, di cui 8 pubbliche, emerge la serenità di fondo di chi sa di essere in un posto che non si è scelto, ma che Dio ha voluto per lui. («Io sono qui. Non mi domando più perché ci sia arrivato o perché mi ci abbiano mandato. So soltanto che sono qui. E allora il mio posto è questo ed è qui che devo lavorare»).
E ancora: «Combattivi fino all’ultimo sangue e a costo di farsi relegare in una parrocchia di 90 anime in montagna e di farsi ritirare i libri dal commercio, sì tutto, ma senza perdere il sorriso sulle labbra e nel cuore e senza un attino di disperazione o di malinconia o di scoraggiamento o di amarezza. Prima di tutto c’è Dio. E poi c’è la Vita Eterna».
Infine, è proprio con il sorriso e con due ultime immagini che vogliamo accomunare i due sacerdoti: entrambi in sella alle loro biciclette mentre percorrono, come erano soliti fare, chilometri su chilometri.
La prima ci mostra don Elio Monari che pedala assieme a due amici sacerdoti da Modena a Panzano, raccontando a loro, con abbondanza di particolari anche spassosi, la liberazione del partigiano arrestato e ricoverato all’ospedale che riuscì a fuggire grazie alla veste talare portatagli di nascosto da don Elio, con la complicità di infermieri e medici.
La seconda immagine è quella di don Lorenzo che carica sulla sua bici due ragazzini figli di un camionista il cui mezzo era bloccato da diverso tempo dall’autorità giudiziaria a causa di un incidente stradale.
Essendo il camion il mezzo indispensabile di sostentamento per quella numerosa famiglia, don Lorenzo, consapevole di ciò, va a Firenze e si presenta all’ora di pranzo a casa dell’avvocato istruttore. Appena venne ad accoglierlo gli disse: «Se entro domani lei non rilascerà l’autorizzazione per disporre nuovamente del camion al padre di questi ragazzi, io le porterò tutti i giorni a pranzo, qui a casa sua, questi figlioli».
Fu così che quella pratica che si trovava a stagionare da troppo tempo in fondo a una montagna di altre pratiche, con piacevole sorpresa balzò in prima posizione, e così, in breve tempo, questo problema fu risolto in modo positivo.

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