Ho direttamente collaborato con Mons. Giuseppe Pasini dal `91 al `96, vale a dire per l’intera durata del suo secondo mandato di Direttore della Caritas Italiana. Fu lui a contattarmi personalmente per chiedermi la disponibilità a fare il vicedirettore trasferendomi a Roma da Pisa, dove da una decina d’anni anni dirigevo la Caritas diocesana. Don Giuseppe conosceva molto bene il lavoro delle Caritas nelle chiese locali di tutta Italia e anche le persone che se ne occupavano, grazie a un’azione capillare legata sia a numerosi momenti di formazione (convegni, seminari, gruppi di lavoro), sia alla grande disponibilità a venire sul territorio per aiutarci a promuovere e animare le realtà locali: parrocchie, volontariato, obiettori di coscienza, nuove frontiere della solidarietà e della lotta alle povertà…
Uno stile di presenza lucido, efficiente e insieme cordiale che aveva impresso fin dall’inizio Mons. Giovanni Nervo, “inventore” e padre della Caritas in Italia. Era stato proprio Nervo a volere accanto a sé Pasini nel neonato organismo ecclesiale. Pasini era già a Roma, chiamato dalla diocesi di Padova nel 1967 con l’incarico di vice-assistente nazionale delle ACLI per dedicarsi soprattutto alla cura pastorale della “gioventù aclista”. Anni di fermento nella società e nella Chiesa, di forte attenzione verso una giustizia sociale che molti cristiani vedevano praticabile soltanto attraverso “scelte di campo” viste con sospetto o addirittura con paura dalle gerarchie ecclesiastiche e dai cattolici benpensanti. Alla “deplorazione” di Paolo VI seguì la decisione di “ritirare” dalle ACLI gli assistenti ecclesiastici, “liberando” dall’incarico quei preti che non avevano già provveduto in proprio…
IN TANDEM CON DON GIOVANNI NERVO
Fu così che, a partire dal 1972, don Giuseppe affiancò don Giovanni dando vita a un “tandem” ineguagliabile di intelligenze e di cuori, di visione pastorale e sensibilità sociale, di tensione educativa e dedizione alla causa dei poveri.
Io cominciai a conoscere Pasini di persona alla fine degli anni `70, quando lo invitai a Pisa come relatore a un affollato incontro cittadino in cui si illustrava la situazione dei profughi dal Viet-Nam, i boat people, e si ponevano le basi per l’accoglienza in diocesi di alcune famiglie di vietnamiti (e successivamente di cambogiani). Quel momento pubblico vide la partecipazione del Sindaco cittadino di allora, Luigi Bulleri; un comunista a cui creammo qualche problema in quanto si trovò a dover esprimere pubblicamente solidarietà a persone la cui sofferenza era frutto di un regime ideologicamente affine al suo partito. Occasioni come quella si rivelavano preziose perché, al di là degli schieramenti, facevano convergere persone e forze molto diverse, mettendo al primo posto il servizio concreto alle persone nel bisogno. In questo modo si attivava una carità capace di coinvolgere la società, di interrogare la politica, di mostrare una Chiesa propositiva e dialogante. L’attenzione al sociale e al civile e il dialogo talora scomodo con le istituzioni è stata una costante dell’impegno culturale e pastorale di don Giuseppe (anche questo condiviso con don Giovanni), che ha animato il suo servizio sia alla Caritas che alla Fondazione Zancan.
La memoria di don Giuseppe deve fare necessariamente cenno allo sviluppo di una caratteristica costitutiva di Caritas Italiana, chiamata statutariamente a promuovere la testimonianza della carità “in vista delle sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace” (Art. 1 dello Statuto). Giustizia sociale e pace hanno costituito in certo senso il binario su cui Caritas prima camminò e poi cominciò a correre per essere fedele ai compiti statutari e, più a monte, ai motivi per cui Paolo VI l’aveva voluta. Giustizia sociale significò, in particolare nel decennio in cui Pasini fu direttore, forte e costante attenzione alla legislazione sociale in vista della dignità della persona e in particolare della tutela delle fasce sociali più deboli. Tra le tante prese di posizione, mi limito a citare un suo intervento nel 1994 allorché si appellò “al presidente della repubblica, quale garante della solidarietà nazionale sancita dalla Costituzione, richiamando due rischi: quello delle generiche dichiarazioni di solidarietà, che di fatto dissimulano sprechi di risorse e coperture di privilegi corporativi; e quello del ritorno (…) a quel tipo di liberismo che di fatto annulla lo stato sociale e confina la solidarietà nell’area delle scelte volontaristiche, anziché collocarla in una preciso progetto sociale”.
UN’AUTENTICA SCUOLA FORMATIVA
Facendo un passo indietro, devo dire che per me, allora giovane prete della generazione immediatamente successiva al Concilio, le impegnative e belle occasioni formative offerte sia dalla Caritas che dalla Zancan – caratterizzate dall’approfondimento culturale, dal confronto di esperienze e dalla progettazione condivisa – rappresentarono veramente una palestra di pastorale sociale “in situazione”, una sollecitazione ad allargare lo sguardo sulla Chiesa e sul mondo. Una volta trovatomi a collaborare strettamente con Don Giuseppe col ruolo di vicedirettore vicario, ebbi modo di apprezzare ancor di più quella “scuola” concretissima, attenta ai bisogni di crescita e comunione delle Chiese locali e insieme alle esigenze di solidarietà del nostro tempo, a 360 gradi.
In questo senso l’altro aspetto qualificante, fatto totalmente suo da Pasini sulla scia di Nervo, era la capacità di essere presente, in Italia e nel mondo, dovunque si verificasse un’emergenza, per accompagnare le chiese locali nella condivisione delle prove. Stile costante, sempre rapportato alle specifiche esigenze, era organizzare una solidarietà finalizzata alla ripresa umana ed ecclesiale delle comunità locali, trasformando le calamità in occasioni di crescita, che voleva dire allacciare o consolidare legami di collaborazione e amicizia. Sempre con sguardo attento, pensiero vigile, volto sorridente. Don Giuseppe era il primo a salire in macchina o saltare su un aereo, si spostava incurante di fatiche e rischi, affrontava ogni sorta di disagio e precarietà per incontrare vescovi, parroci e autorità civili, stabilire piccoli nuclei di presenza e accompagnamento, individuare le attenzioni necessarie e le realizzazioni possibili, sempre a partire dai bisogni più gravi e meno eclatanti.
Dei cinque anni vissuti gomito a gomito, cerco di ricordare le più significative presenze e interventi: nei territori e nei nuovi stati dell’ex-Jugoslavia, nella Russia alla fame dopo la disgregazione dell’impero sovietico, nel Bangladesh colpito da un tremendo monsone, in Iran con l’intervento a seguito di un terremoto (con faticosissima mediazione tra un islam molto rigido e la presenza cattolica), in Rwanda dopo il tremendo genocidio, in Angola con un progetto sanitario mirato all’autosufficienza attraverso la produzione in loco di farmaci essenziali, nella dilaniata Albania…
STILE SINODALE ANTE LITTERAM
Verso la fine del suo mandato, nell’anno pastorale 1994-95, Pasini insieme ai più stretti collaboratori fece la scelta di un “anno sabbatico”: riduzione delle attività ordinarie e cinque momenti residenziali di riflessione e preghiera che coinvolgevano la Presidenza e il Consiglio nazionale, il personale interno e un gruppo di direttori e collaboratori diocesani. Quell’intenso lavoro di approfondimento spirituale e pastorale fu accolto e condensato nella Carta pastorale “Lo riconobbero nello spezzare il pane”: una rilettura dello statuto alla luce delle mutate condizioni storiche, sociali ed ecclesiali, che approdò alla stesura definitiva dopo un’intensa consultazione di tutte la Caritas diocesane. Don Giuseppe fu il regista di un’autentica esperienza di sinodalità (= cammino fatto insieme) che produsse un testo essenziale, profondo e ancora valido sul rapporto Chiesa/carità. In certo modo anticipammo quello stile sinodale che in tempi recenti è stato proposto da papa Francesco all’intero corpo ecclesiale.
Il punto più drammatico e insieme più alto della volontà di condivisione con gli ultimi della terra lo toccammo quando si verificò l’uccisione in Somalia di Graziella Fumagalli, un medico generoso e intelligente che dirigeva il servizio antitubercolare dell’ospedale di Merka, realizzazione segnalata dall’OMS per l’alto grado di efficacia. Don Giuseppe e tutti noi vivemmo quei momenti con grande dolore e insieme con la consapevolezza di fede che, attraverso il sangue versato da Graziella, la Caritas aveva scritto la sua pagina sul libro dei “martiri della carità“. Furono giornate intense di sgomento e di preghiera, che ci unirono profondamente e che difficilmente dimenticheremo. Di lei don Giuseppe scrisse si Italiacaritas: “Graziella va considerata la nostra rappresentante, prima presso i poveri, ora presso Dio”.
L’EDUCAZIONE ALLA PACE
Proprio l’azione per la pace, la denuncia della violenza, la ricerca della giustizia come antidoto della guerra e la conversione a Cristo-nostra-pace hanno rappresentato un altro elemento costante delle convinzioni e del servizio pastorale ed educativo di Giuseppe. Mi riferisco in particolare alla promozione del servizio civile, puntando a che i giovani fossero davvero obiettori di coscienza, cioè convinti operatori di pace attraverso la nonviolenza, il dialogo, il coinvolgimento personale, la dedizione nel servizio. Ciò comportava anche tensioni e scontri caratterizzati da incomprensioni, frenate e tentativi di dissuasione provenienti da ambienti sia ecclesiastici che civili. Una volta che Pasini denunciò i gravissimi, insostenibili ritardi con cui il Ministero della Difesa liquidava gli importi dovuti agli obiettori, il presidente del Consiglio Giuliano Amato definì quella legittima richiesta un “business dei poveracci“. Che suggerì il motto: molti nemici, molto onore!
Adesso che il capitolo del servizio civile degli obiettori lo guardiamo ormai da lontano, è giusto e doveroso (senza indulgere a nostalgie) non dimenticare quella stagione in cui la Caritas di Nervo e di Pasini – in dialogo e sinergia con vari altre componenti cattoliche e laiche – diedero luogo un’offerta concreta di educazione umana e civica, sociale e religiosa che accompagnò e allenò una generazione di giovani al servizio agli ultimi, a scelte professionali coerenti, ad assunzione di responsabilità in campo civile ed ecclesiale. Nel periodo di maggior adesione alla proposta del servizio civile nelle Caritas, gli obiettori furono poco meno di 5.000 per anno, distribuiti in 180 diocesi. Un vero e proprio apprendistato di solidarietà e partecipazione.
NEL SOLCO DELL’ECCLESIOLOGIA CONCILIARE
Solidarietà internazionale, educazione alla pace e varie altre attenzioni non bastano a fornire il giusto quadro d’insieme del lavoro di Pasini. L’anima di tutto, la motivazione profonda era la piena adesione all’ecclesiologia conciliare come fonte di ispirazione pastorale, con il supporto di un tratto spirituale tanto discreto quanto profondo. Pasini alla Caritas è stato – come pure successivamente nel servizio presbiterale una volta ritornato alla sua diocesi di Padova – un vero servitore della Chiesa, un appassionato costruttore di legami ecclesiali, di strategie pastorali, di crescita comunitaria. La sua grande competenza e passione sul tema della carità è stata personalmente vissuta e si è sviluppata – ne fanno fede i suoi libri e una serie ingente di saggi e articoli – attraverso l’impulso da lui dato alla costruzione della comunità ecclesiale, alla dimensione testimoniale dei credenti, all’annuncio del Vangelo al mondo e all’animazione della società in base a valori e comportamenti improntati a una carità prima teologale e poi pratica, concreta. Non a caso uno dei suoi testi ha per titolo “Carità quinto Vangelo” (EDB, 1998).
In un capitolo di quel testo Pasini affronta il tema del volontariato. Del quale fu, alla Caritas come pure alla Zancan, costante e intelligente promotore e formatore. Il testo mette in luce le motivazioni personali e di gruppo, la distinzione senza opposizione tra volontariato di ispirazione cristiana e volontariato laico, l’estensione alle principali aree di intervento sociale, la dimensione critico-profetica, le esigenze di chiarezza, la necessità di costante formazione. Come in altre occasioni, non mancava di sottolineare la dimensione politica del volontariato, come “capacità di interpretare la realtà sociale e i meccanismi che stanno alla base dei processi di emarginazione, gli squilibri del sistema produttivo, le insufficienze del regime abitativo, le deficienze del sistema sanitario, i vuoti del sistema scolastico”. E sottolineava la “capacità di rapportarsi con le forze politiche, amministrative, sindacali per contestare ma soprattutto per dare un contributo di idee e sperimentazioni” come pure “l’impegno di controllo sociale … affinché le leggi, le decisioni amministrative, la modifica dei servizi vengano effettivamente realizzate” (pagg. 137-138).
SPIRITUALITÀ INCARNATA
La sua sensibilità pastorale e pedagogica era alimentata da una profonda e intensa spiritualità. Nel 1995, al Convegno organizzato a Firenze dalla Caritas insieme a CNCA, Il Regno e Gruppo Abele, a don Giuseppe fu chiesto un contributo sul tema “spiritualità”. Lo fece con un testo ricco e meditato, quasi una sintesi del suo modo di intendere la vita cristiana. Lo articolò intorno a tre concetti: compagnia, speranza, rinnovamento. Così concluse la comunicazione: “La spiritualità è la linfa che assicura alla vita cristiana personale e comunitaria il carisma dell’autenticità e le prospettive della continuità. Ma deve essere una spiritualità vera, che si incarna nella storia e trasforma i credenti in veri servitori dell’uomo”.
La sua spiritualità si esprimeva nella capacità di offrire tutto al Signore nella preghiera; più di una volta mi accadde, sapendo che era in sede e non trovandolo nel suo ufficio o altrove, di scovarlo in cappella, davanti al Santissimo Sacramento. E ogni giorno – è una confidenza che fece al momento di congedarsi dai dipendenti e collaboratori di Caritas Italiana – ci ricordava tutti, uno per uno, nelle sue preghiere.
Ma non voglio fare un santino: di Don Giuseppe ho conosciuto anche i tic, le impuntature, l’insistenza e una certa rigidità esigente… Certe volte se ne usciva con richieste di lavoro per chiunque altro impensabili, lui però le sapeva proporre con un disarmante sorriso. Quando ti chiedeva una cosa che sembrava po’ troppo, era difficile dirgli di no perché sapevi che al massimo si trattava di un decimo di quello che lui stava già facendo; d’altra parte uno dei suoi motti era questo: «Se devi chiedere un impegno a qualcuno, chiedilo a chi sta già facendo molte cose, troverà spazio e tempo anche per un’altra!».
E poi arrivava il momento che ti sapeva mostrare davvero, concretamente e senza fronzoli, attenzione, vicinanza, amicizia vera. Quando mi sistemai a Roma in un piccolo appartamento che dovevo arredare, volle farsi carico personalmente dell’acquisto dei mobili della cucina. E non posso dimenticare che queste attenzioni concrete le condivideva in modo gioioso e completo con la sorella Caterina, sempre accanto a lui come angelo custode affettuoso e premuroso.
Il suo esserci, esserci sempre, dando tutto e chiedendo molto, lo portava a essere il primo ad arrivare, a partire, a intervenire, a dichiararsi: perché il tempo è prezioso; perché i talenti vanno spesi tutti presto e bene; perché la Chiesa e il mondo hanno bisogno di noi e non ci è lecito stare con le mani in mano, rimandare, delegare, aspettare che passi la nottata. La prima volta che salii in auto con lui, mi colpì il suo modo di correre nel traffico di Roma! A suo modo, una sorta di sindrome da pole-position. Per non arrivare in ritardo dove c’era da amare e servire.
don Antonio Cecconi