Disincanto di Natale, di Alessandro D’Avenia

Il rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato qualche giorno fa, ci definisce ciechi di fronte a problemi evidenti eppure in stato di perenne emergenza, due condizioni che portano a ripiegarsi sul proprio orticello «alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano», con conseguenti legami sociali frammentati: «nella incomunicabilità generazionale va in scena il dissenso senza conflitto dei giovani, esuli in fuga». A questa situazione corrisponde una gestione politica «spezzettata in micro-interventi e nella protezione di microcosmi privati» e uno sviluppo economico con «pochi traguardi strategici».
Siamo un popolo al quale sono poco a poco venuti meno i motivi per esserlo, ma che poi «si consola constatando che il nostro è il Paese delle meraviglie, se ammirato dall’alto delle lussuose terrazze cittadine, degli strapiombi sul mare, delle colline e delle cime più elevate. Ignorando quanto sia invischiato in tutte le sue arretratezze, se praticato dal basso». La fotografia del rapporto è alquanto impietosa, ma forse questa narrazione da fine impero è necessaria per una reazione. Il rapporto ci definisce infatti, credo troppo pessimisticamente, dei sonnambuli. Il punto è: che cosa può risvegliarci?
Nel suo bel libro sulle cause che portano le società al Collasso, l’antropologo Jared Diamond si chiede perché alcune non riescano a vedere i rischi in cui versano. Lo studioso raggruppa in cinque categorie i motivi della fine di una civiltà: maltrattamento del territorio, mutamenti ambientali indipendenti dall’uomo, presenza di popoli nemici, qualità dei rapporti con quelli amici, la risposta che un popolo dà ai problemi.
Ciascun ambito ci riguarda da vicino, ma vorrei soffermarmi solo sull’ultimo aspetto, quello culturale, perché l’energia creativa e curativa di una cultura dipende, come per i singoli, dalla consapevolezza della sua vocazione. Non è pretenzioso chiedersi, come facciamo a livello individuale per ritrovare noi stessi, qual è il nostro posto nel mondo, quale il nostro motore di pensiero e azione, che cosa possiamo essere e fare solo noi, per e con chi facciamo quel che siamo chiamati a essere e fare. Siamo per nascita un popolo geograficamente e culturalmente vario e frammentato, che ha fatto di questa condizione la sua vocazione: forti identità locali che diventano un punto di forza quando le comunità danno il meglio di sé e collaborano, ma questo è accaduto quasi sempre di fronte a problemi comuni che ci hanno uniti, come adesso riesce a fare quasi solamente lo sport.
Il nostro «particolarismo», nutrito oggi di individualismo, ci sta portando invece a «dis-integrarci» sempre più e a volerci affermare a prescindere da legami, relazioni e obiettivi condivisi. Rari sono ideali, spinte, desideri, capaci di unirci, una mancanza inevitabile quando si è troppo impegnati a sopravvivere o a sopraffare. Abbiamo bisogno di uno slancio comune, come quello del secondo dopoguerra, uno slancio che dovremmo trovare nel più minaccioso dei nemici che il rapporto Censis evidenza e sembriamo ignorare: la crisi demografica.
Nel 2022 abbiamo avuto un record negativo di nati (392.598) e di morti (713.499), in entrambi i casi cifre mai viste dal secondo dopoguerra. Nel 2040 le coppie con figli saranno una su quattro. Nel 2050 l’Italia avrà perso 4,5 milioni di residenti, Roma e Milano sommate. Spariranno 3,7 milioni di persone con meno di 35 anni e aumenteranno di 4,6 milioni gli ultra 65enni, di cui 1,6 milioni con più di 85 anni. Si stima che nel 2050 ci saranno 8 milioni di persone in età attiva in meno, con un impatto letale sull’equilibrio economico dal momento che il nostro welfare è fondato sul patto tra generazioni: la sua sostenibilità è garantita dal fatto che i contribuenti coprano il costo delle pensioni. In sintesi: siamo un popolo che ha rinunciato alla vita.
In Italia fare famiglia è difficile per ragioni strutturali (tasse che penalizzano chi ha figli e servizi insufficienti per chi li vuole), eppure l’Istat dice che se nel nostro Paese il numero medio di figli per donna oggi è di 1,24, invece il desiderio dichiarato è metterne al mondo più di due. La soluzione quindi l’abbiamo, ma è sterilizzata dall’incapacità politica di rimuovere gli ostacoli al desiderio di vita, dalla paura di affrontare un vero e proprio percorso a ostacoli, dal percepire i figli come un’avventura non proprio così bella. Inoltre, i dati mostrano che i flussi migratori sono ampiamente insufficienti per costituire una soluzione. I giovani, che sono sempre la principale spia di salute di un Paese, decidono infatti di andar via. Siamo un popolo che, pur avendo desiderio di vita, vi rinuncia, per stanchezza e paura.
Il vicino Natale ci richiama: per salvarci abbiamo bisogno di rimettere al centro il Nascere, che potrebbe tornare un verbo generoso (aggettivo che ha la stessa radice di generare) e quindi gioioso. Siamo chiamati a nascere per tutta la vita non solo individualmente, ma anche a livello di comunità: nascere è realizzare la propria vocazione sino all’ultimo istante e vivere è il modo umano di nascere del tutto. Questo lo fa ciascuno di noi «generando», insieme ad altri, qualcosa di nuovo, mettendo al mondo qualcosa di bello, dando alla luce qualcosa di inatteso, come il Natale ci ricorda.
Il mio augurio è che nasca in noi e attraverso di noi una vita nuova o almeno riparata, perché questo disincanto, personale e nazionale, possa mutarsi in un canto di Natale. Abbiamo bisogno del Bambino più di quanto immaginiamo… Questo è l’ultimo banco del 2023, dal momento che i prossimi due lunedì saranno festivi. Buon Nascere e buon far Nascere a tutti!
www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/23_dicembre_18/183-disincanto-natale-245c401a-9d0b-11ee-8b34-1e18e1726a61.shtml?refresh_ce

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