Dignità e tutela del lavoratore, di Angela Arbore

In concomitanza dell’uscita del numero cartaceo 133 su cittadini e sovrani, accogliamo un articolo sul tema della cittadinanza, nell’ottica del lavoro. L’Autrice è magistrato del lavoro, attualmente  presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Trani.

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Come ritenuto dai filosofi, l’idea liberale del lavoro come grande integratore di diritti sociali e di cittadinanza e come modello di inclusione è tema da dibattere ed approfondire.

Quale rapporto di potere genera la dipendenza lavorativa da un’altra persona? Come influisce questa dipendenza sull’uguaglianza e sulla libertà, che da un punto di vista formale dovrebbero essere garantite a tutta la cittadinanza grazie al lavoro stesso?

Quando si parla di lavoro, si tratta esclusivamente di descrivere la prestazione di un servizio e la produzione di un’opera, oppure entrano in gioco anche dei meccanismi disciplinari e di assoggettamento a un ordine (sociale, politico, religioso)?

Orientamenti ideologici pur storicamente divergenti (quali, ad esempio, la Dottrina sociale della Chiesa e il Socialismo) convengono circa l’importanza che assume, in un sistema politico – giuridico, la promozione dell’individuo in quanto tale, sganciato dai bisogni materiali, al fine di garantirne la libertà, intesa come precondizione per la realizzazione della dignità della persona umana.

La libertà, infatti, è alla base dell’esistenza umana, ma è anche un bene che si espande e acquisisce rilievo solo se volto ad uno scopo preciso.

Don Luigi Ciotti ritiene che un modo per combattere soprusi e ingiustizie (e garantire la libertà) sia la “legalità del noi”, l’agire insieme, per sconfiggere anche le mentalità produttrici di organizzazioni criminali. E come fare? Bisognerebbe partire proprio dalla nostra Costituzione, “pagine dove la legalità […] si fonda sulla corresponsabilità delle istituzioni e dei cittadini nella tutela del bene comune della democrazia” e dove il “noi” costituisce il tessuto sociale da cui partire per realizzare ciascuno la propria dignità e libertà.

Valori quali la libertà e la dignità, insieme alla legalità, sono, dunque, presenti nella nostra Costituzione italiana, in particolare in una serie di disposizioni relative alla dignità del lavoratore.

Non vi è una definizione di dignità in senso stretto, ma il richiamo a tale valore lo ritroviamo in vari articoli.

Bisogna sicuramente partire dall’art.1 Cost., il quale, al comma 1, dispone che: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Parte della dottrina ritiene che il concetto di lavoro sia strettamente collegato alla persona umana, dalla quale il lavoro stesso non può essere separato; e si è affermato che “la parola lavoro è una astrazione, poiché non esiste lavoro in sé, ma la persona che lavora”.

Il lavoro, dunque, viene posto a fondamento della democrazia e, grazie ad esso, ciascun individuo apporta beneficio alla società.

Esso, quindi, non è da considerare come mero oggetto di diritti e di doveri, ma è innanzitutto un presupposto sul quale edificare l’intera Costituzione.

È interessante considerare che, inizialmente, il progetto dell’Assemblea costituente utilizzava l’espressione “Repubblica di lavoratori”, poi sostituita da “fondata sul lavoro”. La scelta di cambiamento probabilmente fu dovuta alla volontà di distaccarsi da espressioni che richiamassero le costituzioni di tipo sovietico.

La nuova espressione, invece, “fondata sul lavoro” è intesa dalla dottrina come Repubblica “socialmente impegnata”, che interviene per l’attuazione di un programma di giustizia sociale.

Imprescindibile è, ancora, l’art. 2 Cost., in base al quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Si è osservato, a riguardo, che tale norma “sancisce che i diritti inviolabili dell’uomo appartengono contemporaneamente al mondo del Diritto e a quello della morale”.

La norma richiama, dunque, il dovere di solidarietà, un principio fondamentale del diritto del lavoro.

Esso, infatti, è stato utilizzato sia dalla Corte Costituzionale per l’applicazione dell’art. 39 Cost., sia soprattutto in materia di legislazione previdenziale e tributaria.

In stretta connessione vi è anche l’art.4, in quanto tra i doveri di solidarietà è sicuramente da annoverare il dovere al lavoro, inteso come un bene che apporti utilità alla collettività.

Il dovere di lavorare è quanto la Repubblica chiede a ciascuno per fare del lavoro il fondamento della società. La Repubblica, però, dal canto suo, deve fare in modo di rendere possibile tale diritto.

Ciò è ribadito anche da autorevole dottrina, che afferma che la più importante misura di giustizia sociale consiste nell’assicurare ad ogni individuo la possibilità di inserirsi nelle attività produttive, in modo che la sua personalità possa esplicarsi.

Altra norma imprescindibile è indubbiamente l’art.3, che enuncia, al primo comma, il principio di uguaglianza formale di tutti i cittadini e, al secondo comma, il principio di eguaglianza sostanziale.

La disposizione di cui al secondo comma, in particolare, può essere considerata quale norma posta a fondamento del cosiddetto diritto “diseguale”, caratteristica tipica del diritto del lavoro.

Di conseguenza, si può affermare che, nel diritto del lavoro, si ha una sorta di sottovalutazione del principio di eguaglianza formale di cui al primo comma; il principio di uguaglianza, infatti, non deve limitarsi alla sola eguaglianza di fronte alla legge, ma deve tendere alla promozione della pari dignità sociale delle persone e dei gruppi sociali.

Altra autorevole dottrina, sempre con riferimento al comma 2, ravvisa un rovesciamento del pensiero liberista-liberale, in base al quale “proprietà è libertà”; si ritiene, dunque, che l’uomo sia strettamente influenzato dalla situazione economica e sociale dell’ambiente in cui vive e ciò possa essere da ostacolo al pieno sviluppo della persona umana.

La Costituzione, quindi, deve consentire ad ogni cittadino il pieno e libero sviluppo delle sue possibilità umane, a prescindere dalle sue origini, “alla pari nella partenza della lotta per la vita”.

La tutela del lavoratore passa anche attraverso il diritto alla salute, strettamente collegato al diritto della sicurezza sul lavoro. Considerato uno dei diritti fondamentali, esso è sancito all’art.32 Cost., il quale riconosce e tutela la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Tale articolo, su cui si è espressa anche la Corte Costituzionale, inoltre, testimonia come oggetto di tutela vero e proprio non sia il lavoro in genere, ma la personalità del lavoratore.

La Corte Costituzionale, infatti, ha affermato che: “la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato (…). La tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell’individuo a condizioni (di vita, di ambiente e) di lavoro che non pongano a rischio questo suo benessere essenziale”.

La tutela della dignità del lavoratore passa, ovviamente, anche attraverso il suo diritto a percepire una giusta retribuzione; all’art. 36 viene enunciato, infatti, il diritto di ogni lavoratore a percepire una retribuzione dignitosa e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché al risposo settimanale e alle ferie.

La Costituzione tutela anche il lavoro delle donne, soprattutto all’art. 37, laddove si stabilisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.

Questa norma non fa che ribadire il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, che deve intendersi sia in senso formale che in senso sostanziale, con il conseguente diritto alla rimozione degli ostacoli che limitano l’eguaglianza di genere.

La medesima disposizione, in particolare ai commi 2 e 3, tutela altresì il lavoro minorile, imponendo alla legge di stabilire il limite minimo di età per il lavoro e garantendo, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Alla stregua di quanto si è finora detto è possibile affermare che per lavoro dignitoso si intende quello che permette all’individuo, dapprima di sviluppare le proprie potenzialità, e poi di mettere tali potenzialità e capacità a disposizione della società; di conseguenza, non sarebbe possibile concepire come dignitoso un lavoro de-umanizzante, e il cui svolgimento sacrifichi valori fondamentali e diritti costituzionali come quelli sopra citati.

L’interprete, dunque, ha il compito di vigilare sull’attuazione di tali principi costituzionali, affinché il lavoro non diventi sempre più “senza qualità” e senza dignità, ovvero un lavoro accettato solo perché ritenuto unica soluzione possibile, “un lavoro (che si accetta) purché ce ne sia uno”.

In conclusione, allora, come appare evidente dalla rapida carrellata effettuata, vi è un nesso imprescindibile tra cittadinanza e lavoro.

Tuttavia, il rapporto tra cittadinanza e lavoro, che ha indubbiamente portato a conquiste storicamente decisive per il passaggio da una cittadinanza formale a una cittadinanza sempre più sostanziale, va oggi integrato.

Tra cittadinanza e lavoro, si è affermato, non vi è equazione e non si può ritenere che tutti diritti della cittadinanza debbano passare necessariamente attraverso il lavoro o la condizione di lavoratore.

Insomma, il lavoro, da solo, sarebbe una porta troppo stretta per la cittadinanza e per la distribuzione delle risorse che la convivenza può offrire.

Una cittadinanza per le persone deve puntare a obiettivi più ampi.

Questo ampliamento di vedute non deve portare alla rinuncia a fare del lavoro un bene universalmente condiviso.

Anzi rende ancora più stringente la lotta per il lavoro, proprio in quanto venga sottratto alla sua considerazione unilaterale e venga inserito tra i beni di cui la persona – ogni persona – va dotata, senza però far dipendere la propria dignità solo da esso.

Il lavoro, in sostanza, può essere assunto come problema civile e politico a tutto tondo, più di quanto oggi non si faccia, proprio perché è condizione dell’essere persona presa nel suo insieme. Superare la frontiera del lavoro nella definizione della cittadinanza, legando quest’ultima al riconoscimento e alla realizzazione dell’umano di cui ogni persona è in quanto tale portatrice, permette di pensare ad una forma migliore e più partecipata della convivenza in tutti i suoi aspetti, e soprattutto coerente con il disegno costituzionale.

«Perciò, visto che tutti sono occupati in mestieri utili e senza sprechi di tempo, succede talvolta che, essendoci abbondanza di prodotti, un grandissimo numero di lavoratori sia mandato a riparare le strade quando queste siano dissestate; molto spesso, però, se non si ravvisa la necessità di simili interventi, si procede a una riduzione dell’orario di lavoro. Infatti, i magistrati non costringono i cittadini, contro il loro volere, a fatiche superflue, dato che la costituzione di quello Stato ha come scopo primario che tutti i cittadini, nei limiti imposti dalle necessità collettive, siano liberi dalla schiavitù del corpo e dedichino quanto più tempo possibile a una libera attività dello spirito. In questo, secondo loro, consiste la felicità del vivere». (Thomas More, Utopia, 1517).

Angela Arbore, magistrato del lavoro, Trani

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