Da troppo tempo, nel dibattito pubblico, gli slogan e i dommatismi, specie se declamati con l’enfasi e i decibel con cui in genere si nasconde il vuoto, hanno esiliato i contenuti e le idee. Di nuovo, con l’avvento dell’attuale maggioranza, vi è un’insolita ricorrenza di frasi che suonano come insopportabili stecche. Da personaggi che ricoprono alte responsabilità istituzionali si è costretti ad ascoltare che in via Rasella i partigiani si accanirono contro « una banda musicale di semi-pensionati», che le stragi di immigrati in mare sarebbero evitate se si seguisse l’insegnamento del nostro ministro dell’Interno di rimanere in patria anche se disperati «per responsabilità verso quello che si può dare al proprio Paese» e che comunque, ove derogando a una tal salvifica dottrina, dovessero prende irresponsabilmente il mare e arrivare alle nostre coste, andrebbero sottoposti a uno «sbarco selettivo», respingendo il «carico che ne dovesse residuare»; che dovremmo evitare la «sostituzione etnica»; che il reato di tortura andrebbe abolito perché «il rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il lavoro».
L’esiguità dell’elenco è dovuta a quella dello spazio qui disponibile, non già del campionario offerto dalla cronaca. Si dirà, sono soltanto parole, per di più fatte segno spesso anche di autocritica: “uno sbaglio”, “una sgrammaticatura”, “un problema di ignoranza”, “un malinteso”. Nel singolo caso si può anche essere portati a credere alla buona fede dell’improvvido locutore, ma questo pullulare di “voci dal sen fuggite”, questo diffuso gorgogliare che le menti più ingenue o più deboli non riescono a contenere, rimanda a meno rassicuranti spiegazioni. Si dirà: l’importante è che si contrasti l’eventuale tentativo di dar loro forma normativa. Vigilanza e contrasto senz’altro necessari, ma non sufficienti.
«Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico», scriveva sul suo Taccuino Victor Klemplerer, il filologo tedesco che per le leggi razziali naziste fu privato della cattedra universitaria. Ci dimostrò che le peggiori nefandezze sono preparate, accompagnate e giustificate dalla corruzione delle parole. Ovviamente siamo lontani anni luce da quella temperie politico-culturale. Oggi, sarebbe del tutto fuori luogo agitare un allarme democratico.
Ma non è anacronistico il monito a curare l’ecologia del linguaggio. Rimane irresponsabile, infatti, sottovalutare quel silenzioso e insidioso depositarsi delle parole nella coscienza sociale; quell’inavvertita azione manipolativa del pensiero collettivo, che ne determina un lento, ma inesorabile smottamento culturale e civile. Le singole frasi possono risultare infelici o sgradevoli, ma restano frasi. Quando si congiungono ad altre sul medesimo tema, mandano sempre un messaggio. Prendiamo esemplificativamente il delicato problema dei migranti. Se non riusciamo a convincerli o a trattenerli coattivamente nei loro Paesi o in un Paese terzo; se prendono “taxi del mare” per venire da noi; se non riusciamo a fermarli con un “blocco navale”; se partiti non rendiamo estremamente complicato l’attracco al nostro porto più vicino; se una volta attraccati non riusciamo a far sbarcare soltanto quelli strettamente selezionati rimandando indietro il carico residuo; se non si pongono in essere queste e altre misure di profilassi, allora incombono problemi allarmanti.
Infatti, o questi indesiderati “clandestini” non si integreranno nel tessuto sociale e quindi dovranno vivere di espedienti, spesso fornendo manovalanza per la criminalità; oppure si inseriranno nel tessuto sociale cercando lavoro a danno dei nostri connazionali, mentre dovrebbero venir “prima gli italiani”) e costituendo famiglie, così che, approfittando della nostra crisi della natalità, determineranno una evidente “contaminazione etnica”.
Con il tempo sarà questo il messaggio risultante dall’assemblaggio delle tante monadi verbali che si vanno disseminando. Una sorta di razzismo soft (oggi nessuno si dichiarerebbe razzista, pur essendolo: è diffusa la moda del “razzista con pudore”). Un humus culturale in grado di giustificare scelte politiche, altrimenti indifendibili. Ma soprattutto in grado di individuare negli immigrati la causa di problemi economici o sociali che un domani divenissero preoccupanti: un capro espiatorio, infatti, è da sempre la risorsa migliore per un governo in difficoltà. Come canta Gerard, nell’“Andrea Chenier”, mentre di accinge a formulare una falsa accusa: « Nemico della Patria?! È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo».
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/per-una-ecologia-del-linguaggio-liberi-dalle-catene-di-parole-storte
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