De Gasperi, politica e profezia, di Ivan Maffeis

Tra le figure bibliche che attraversano il tempo senza perdere il loro smalto, c’è senz’altro quella del profeta. Il profeta affascina per la sua libertà da ogni forma di potere. Per il suo essere uomo ancorato al presente. Per la sua capacità, la sua intuizione, nel leggere e nell’interpretare le vicende sociali, politiche, economiche e religiose in cui è coinvolto. Per la forza del suo esempio e della sua azione, che gli deriva dalla fedeltà alla parola e all’azione di Dio, vivente nella storia.
La polis, terra del profeta
Alcide De Gasperi (1881-1954) è stato un uomo politico dotato di capacità profetiche. Nessun altro leader del suo tempo ha avuto una vita così intensa e imprevedibile.
La sua grandezza non si misura solo con quello che ha fatto come statista, ma soprattutto per la testimonianza che ci ha offerto. Come gli antichi profeti, ha indicato una strada e un metodo politico che vanno oltre la sua stessa esistenza.
Ha accettato di mettersi alla guida del suo popolo, senza garanzie e senza esitazioni. Prima è stata la volta del popolo trentino, orfano e disperso durante la Prima guerra mondiale, poi quella del popolo italiano che imparò a conoscere. Quando nel 1945 assunse il compito di guidare l’Italia fuori dal deserto in cui la democrazia si era smarrita, De Gasperi aveva 64 anni.
Dalle ceneri del Partito popolare ha creato un grande partito politico di ispirazione cristiana, muovendo quasi dal nulla, al punto che nel 1944 a Stefano Jacini scrive che, purtroppo, non era vero che «il seme della rinascita del partito era stato custodito dalla Azione Cattolica».[1]
Ha condiviso i valori di fondo della Resistenza e ha partecipato con convinzione alla transizione democratica dal Regno alla Repubblica; ha salvato la continuità dello Stato; ha contribuito a dare al Paese una Costituzione tra le più solide; ha ricostruito le basi della collocazione dell’Italia nella comunità dei Paesi occidentali; ha allargato l’orizzonte politico europeo. Con la sobrietà del suo modo di praticare la fede, ha anticipato gli insegnamenti del Concilio Vaticano II; ha offerto un esempio di laicità e insieme di fedeltà alla Chiesa; ha impegnato i credenti per la democrazia rappresentativa, così da dare contenuto politico alla tradizione riformatrice del cattolicesimo sociale.
Soprattutto, con la sua azione tenace ha rimesso al centro la politica, mostrando che spettava proprio ad essa rimediare alla terribile crisi in cui aveva gettato l’umanità. Per De Gasperi la politica è l’unica dimensione dove la verità e le possibilità umane si confrontano alla pari. Sa che la vera politica è un sistema complesso che non tollera a lungo semplificazioni brutali. In questa luce, non esita a riconoscere lo slancio che la politica aveva saputo assicurare all’impresa economica, all’istruzione, alla cultura, anche con ottimi risultati. Con altrettanta chiarezza ne denunzia però i limiti e, più ancora, l’arroganza: quando la politica ha creduto di poter fare da sola, o di realizzare l’impossibile, di raddrizzare «il legno storto dell’umanità», di generare l’«Uomo nuovo», di sognare società perfette, ha finito per rimanere prigioniera di miti e ideologie.
Non a caso, lo storico Paolo Prodi ha spiegato che l’ideologia è un derivato secolarizzato della profezia.[2] A partire dal Cinquecento, la profezia è stata rimpiazzata da progetti utopistici o da regimi assolutisti. In ambito ecclesiale l’attesa per il ritorno del Signore aveva lasciato il posto anche a visioni mistiche fuori dalla storia o, dopo la rottura dell’unità dei cristiani, all’azione di chi tentava di restaurare l’antico potere della Chiesa.
Più volte De Gasperi rifletté su come la rottura dell’unità della Chiesa all’inizio dell’età moderna avesse approfondito l’isolamento di intere aree dell’Europa e soprattutto determinato la frattura tra mondo germanico e mondo latino, la cui alleanza egli concepiva essere il fondamento degli «Stati Uniti d’Europa». L’espressione appare in una lettera al conte Gallarati Scotti del 6 gennaio 1940.[3] De Gasperi intuì presto il valore delle idee di Spinelli e del manifesto di Ventotene.
Possedeva una religiosità non bigotta. Un sacerdote trentino che gli fu amico fedele, don Giulio Delugan – direttore del settimanale diocesano Vita Trentina –, ne ricostruì la spiritualità alla luce della pazienza, dell’umiltà, della preghiera, della forza di carattere che seppe dimostrare nel periodo più doloroso della sua vita, tra il 1924 e il 1943.[4] Questo modo di intendere la spiritualità di un uomo politico come De Gasperi è tuttavia incompleto.[5] La spiritualità non è intimismo e nemmeno solo un modo privato di vivere la propria fede, ma un modo per far rinascere lo spirito negli altri, in tutte le forme in cui è possibile. È testimonianza del valore spirituale della vita e delle relazioni umane. È azione, parola, profezia appunto.
De Gasperi non ha mai usato invano il nome di Dio, ma ha accettato e assunto la propria condizione di politico cattolico come una vocazione. Lo ha ripetuto a sé e ai suoi cari molte volte. Sentiva di non aver altro destino. In una lettera alla moglie, inviata nel 1927 dal carcere romano di Regina Coeli scrive:
«Rifaccio con la memoria l’ingrato cammino di questi ultimi anni e penso se potevo fare altrimenti. E mi pare di no. Ho resistito fino all’ultimo sulla trincea avanzata dove mi aveva chiamato il dovere, ma era proprio la mia coscienza che me lo imponeva, le mie convinzioni, la dignità, il rispetto di me stesso. Ci sono molti che nella politica fanno solo un’escursione, come dilettanti, ed altri che la considerano come un accessorio di seconda importanza. Ma per me, fin da ragazzo, era la mia carriera o, meglio, la mia missione».[6]
Una missione, la sua, nutrita da una solida cultura politica. Aveva studiato le rivoluzioni settecentesche, meditato sulla fine del potere temporale dei papi e apprezzato il compromesso positivo tra trono e altare praticato nell’Impero austroungarico. Aveva avuto come guida e confidente un principe vescovo, mons. Celestino Endrici, che gli aveva insegnato ad essere forte nelle difficoltà. Conosceva bene la dottrina sociale cristiana, come anche la diffidenza della Chiesa per la democrazia e il suo accanirsi contro coloro che erano accusati di «modernismo». Aveva maturato il rifiuto della violenza e del giacobinismo e creduto che il fine della lotta politica non fosse di assicurare il Paradiso sulla terra, ma la dignità di ogni persona e la possibilità di ricomprendersi in un orizzonte di comunità.
Come tutti i profeti, non era un moderato. Senza mai tirarsi indietro nelle battaglie elettorali, ha contribuito a riscattare la politica dai suoi aspetti più materiali e duri. Voleva fornirle un’anima, fare in modo che avesse sentimenti e principi. Ha praticato l’arte di comporre le differenze in modo tale che esse non diventassero opposizioni preconcette, ma si integrassero in quell’amicizia politica che è l’anima della democrazia. Non si trattò di una concordia oltre la discordia, ma di una concordia nella discordia. Sapeva che sarebbe venuto il tempo delle scelte di campo.
In un discorso del 3 marzo del 1945 – non era ancora Presidente del Consiglio – al Consiglio nazionale del suo giovane partito disse: «Noi potremmo collaborare con filosofi idealisti o materialisti nelle pratiche soluzioni di molti problemi sociali; noi potremmo camminare per lungo tratto verso le più audaci riforme coi socialcomunisti, ma in nessuna misura potremmo confonderci con ideologie e concezioni della vita che combattono il cristianesimo o astraggano da esso; e nella concezione generale della politica e della vita sociale rimarrà sempre tra noi e gli altri la discriminante che da un secolo divide il positivismo dallo spiritualismo e il marxismo dalle dottrine cristiano-sociali. […] Bisogna essere onesti, coraggiosi e fieri delle proprie convinzioni. È vero, l’ora tragica che attraversiamo impone ai democratici cristiani come agli altri il dovere di accentuare i motivi che li uniscono, […] tuttavia, sarebbe cecità colpevole il non vedere che nei momenti delle grandi decisioni sono sempre le idee essenziali che guidano più o meno consapevolmente le sorti dei popoli».[7]
La profezia non toglie nulla alla razionalità, ma allarga la mente e il cuore di chi l’accoglie. Non è divinazione, non è pensiero oscuro, non è risentimento o maledizione dei tempi in cui si vive. È anzi un anticipo, una promessa di futuro, è visione di qualche cosa che sta accadendo, è tentativo di illuminare la notte. I profeti non sono stati puritani, ma uomini pienamente inseriti nella vita del popolo. Anche peccatori. Ascoltati e seguiti, perseguitati e respinti. Acclamati spesso soltanto da morti.
Un’altra condizione accumuna a loro De Gasperi: non aver mai avuto vita facile. Il profeta è come un piolo conficcato, un punto di resistenza, che – a caro prezzo – smaschera il volto di ogni dispotismo, scuote il popolo e richiama al primato della responsabilità personale.
Un profeta appartiene a Dio e al suo tempo. Si fa carico del dolore e della disperazione, come si fa interprete delle speranze più profonde di un popolo. Vede scorrere la bramosia, la violenza, il dolore e l’ingiustizia, ma non si rassegna: denuncia, richiama e annuncia. Pienamente inserito nella realtà, sa che per cambiarla occorre lottare e soffrire. La salvezza è grazia. Ma non esime alcuno dal fare la propria parte.
Una terra di Provvidenza e di libertà
La storia ha collocato De Gasperi alla frontiera tra il passato e il futuro. Visse la caduta, ma anche la rinascita delle società libere, la trasformazione democratica dell’Europa, la costruzione di grandi progetti internazionali per la stabilità e la pace. Un lungo e travagliato apprendistato politico l’aveva forgiato e preparato per un compito che lui stesso non aveva idea di dover assumere. E ciò è un primo indizio del carattere profetico della sua vita.
Un secondo aspetto è la sua ostinata difesa del principio cardine della libertà, non solo dall’oppressore, ma soprattutto dalla tentazione di rinunciare alla propria coscienza per assoggettarsi alle lusinghe dell’autorità. La piaga dei falsi profeti nella Bibbia è stigmatizzata con durezza: «Annunciano la pace se hanno qualcosa tra i denti da mordere, ma a chi non mette loro niente in bocca dichiarano la guerra».[8]
La sua onestà intellettuale gli impedisce di sentirsi appagato. È stata la condizione di numerosi politici cristiani, di ogni tempo, di fronte al complesso rapporto tra politica e fede. Venti anni più tardi Aldo Moro avrebbe parlato addirittura di «un principio di non appagamento».[9] Quella di De Gasperi è libertà da sé stessi, dalla propria debolezza, dalla presunzione di avere il controllo della realtà. È libertà che ha a che vedere con la sua idea di democrazia, che è di tipo morale prima che politico: la democrazia, quale risorsa per superare tutte le possibili forme di idolatria, era misura, discernimento e – se necessario – anche compromesso. Democrazia che trova la propria sorgente non nel comandante in capo, ma nella comunità. Non per nulla De Gasperi considera l’alveo parlamentare la sede fondamentale dove può scorrere l’acqua della libertà e della democrazia.
De Gasperi viene definito il ricostruttore del Paese.[10] Lo fu, ma non come un demiurgo: l’idea che fosse più un uomo di governo che un politico non corrisponde pienamente alla realtà né alle sue inclinazioni. Soffriva il peso e la responsabilità del governare. Amava il confronto politico, la parola e la scrittura militanti, «la propaganda», come diceva lui. In una lettera del 12 aprile del 1946 a Sturzo, che stava rientrando dall’America, scrive: «Sento […] che tu ritorni in tempo [per il primo Congresso della DC]; il tuo lume, la tua guida sarà provvidenziale. Con qual piacere io, invece, prenderei il tuo posto in America! La mia passione sarebbe di buttarmi alla propaganda e invece sono oppresso dai problemi interni ed esteri, legato alla catena amministrativa, con un groviglio di questioni dure e incalzanti. Scusami questo sfogo!».[11]
Usava una pedagogia politica molto efficace. I suoi comizi erano costruiti intorno a notizie e considerazioni sull’attività dei suoi governi e sulla storia politica del Novecento. Assistervi era come entrare nelle stanze del Consiglio dei ministri o della direzione del partito.
Governò per otto anni di fila. Possedeva un innato stile di comando, ma non amava l’idolatria del capo.[12] Sentiva più il bisogno di guidare le masse che il bisogno di imporre. Rifuggiva i paramenti regali. Lo disturbava l’idea che potesse apparire desideroso di decidere da solo. Cercò sempre alleanze. Il 18 giugno del 1945 a Roma affermò:
«Non vi sono uomini straordinari […] Non c’è nessuno che possegga il talismano per poter risolvere un problema, quando questo si presenta in tutta la sua complessità. Per risolvere questi problemi vi sono vari metodi: quello della forza, quello dell’intrigo, quello dell’onestà, quello della fermezza in una fede sicura. Se io sono qualcosa in questa categoria mi reputo di appartenere alla terza. Sono un uomo che ha l’ambizione di essere onesto».[13] Non osava mettersi tra i santi…
Anche in questo ricalcava le orme dei profeti, che avevano mantenuto sempre un atteggiamento molto critico rispetto alla prospettiva di Israele di darsi un re, come avveniva tra gli altri popoli.[14] Emblematica rimane la risposta di Gedeone: tornato dalla vittoria sui Madianiti, rifiuta – con un’obiezione di principio – la proposta di essere fatto re: «Non vi governerò io né vi governerà mio figlio: il Signore vi governerà».[15] Sarà soltanto la minaccia data dalla situazione storica – che comprometteva la stessa sopravvivenza di Israele – la causa che porterà all’elezione di Saul; ma nella lettura profetica questa scelta verrà guardata sempre con sospetto, un cedimento sul piano della fede, una sorta di idolatria, un segno di sfiducia – se non di rifiuto – nei confronti di Dio, l’unico Signore titolato a regnare.
De Gasperi fu come Gedeone. Un Gedeone che confronta il disegno divino con l’iniziativa umana: per lui sopra ogni autorità, ogni regno o repubblica, sta la Provvidenza divina. Al credente spetta corrispondere con la libertà e la responsabilità di iniziativa: bisogna lavorare, produrre, meritare il benessere. Perché non si può ridistribuire miseria, ma solo ricchezza onesta. E chi pretende di pianificare tutto dall’alto crea mostri e comprime l’intelligenza e l’indipendenza umane.
Rivolgendosi insistentemente alla Provvidenza, De Gasperi compiva un gesto profetico che valorizzava l’iniziativa umana. Infatti, se da una parte attribuiva alla Provvidenza le chiavi del governo del mondo, in ogni occasione poi non mancava di ridisegnare il profilo del suo partito. Dice, ad esempio, nel 1950 in un discorso a Sorrento: «Noi accettiamo senza riserve il metodo democratico anche per la difesa dei diritti di classe, perché essi sono i diritti dell’uomo; ma i diritti dell’uomo sono fondati sul diritto di Dio; ecco, dunque, che noi possiamo dare un contributo fondamentale all’unificazione dell’Europa. Noi possiamo accettare un dirigismo moderato in Europa e anche nel mondo, noi che siamo per una giustizia sociale temperata dalla preoccupazione della libertà nel sistema democratico. Noi possiamo pensare da europei; ma vogliamo inquadrare questo pensiero nel concetto universale del cristianesimo. Se possiamo pure superare le frontiere delle Chiese e anche della cristianità, è perché la nostra vocazione è universale, così come è universale la redenzione e la nostra speranza nella Provvidenza, la quale governa il mondo intero».[16]
Lo sguardo alla Provvidenza appartiene per altro alla grande tradizione del liberalismo cattolico italiano, da Dante a Manzoni a Rosmini, autori ben presenti a De Gasperi. Nei suoi discorsi politici si rivolge ad essa affinché protegga l’Italia, allontani lo spirito fratricida della guerra civile, difenda il popolo e la Costituzione. Il suo richiamo alla Provvidenza è duplice: conteneva la consapevolezza del peso per l’Italia del potere pontificio ma era anche un modo per relativizzarlo e per collocare il Magistero della Chiesa entro il più grande disegno divino.
De Gasperi era affascinato dalla Parola. Leggeva quotidianamente la Bibbia, per ricavarne ispirazione. Annotava spesso su piccoli fogli ciò che voleva mandare a mente o che poteva usare nei suoi discorsi.
La politica è sempre stata, in Occidente, prima di tutto parola. La parola fonda la famiglia, le società, riempie le piazze, stabilisce relazioni, costruisce un orizzonte di senso, apre all’idea che attraverso di essa si prepari qualche cosa di nuovo. Nessuna parola è esaustiva. Ogni parola – tanto più quella politica che va per semplificazioni – è pertanto evocativa, rinvia a qualche cosa che deve ancora accadere, apre la strada al futuro. E quando la potenza della Parola politica si confronta con la Parola della Scrittura si aprono prospettive inedite, profetiche.
Erri De Luca, un laico che meglio di molti uomini di Chiesa ha intuito che nella Bibbia c’è qualcosa che supera i secoli, così si racconta: «Per molti la Bibbia è un testo sacro. Ma mi commuove più di quel valore in sé, il sacro aggiunto, l’opera di innumerevoli lettori, commentatori, sapienti che hanno dedicato a quel libro il tempo migliore della loro vita. Il sacro in sé della Bibbia è diventato, attraverso di loro, una civiltà… Nel corso degli anni quel libro è diventato la mia intimità […] Salgo le sue pagine ad ogni risveglio, spengo su di esse la luce, le percorro come i campi che sono fermi eppure mutano a passi di stagione».[17]
Una terra intravista da lontano
Sullo sfondo biblico, una figura come quella di Mosè può aiutare ad accostare e interpretare quella di De Gasperi. I tre passaggi decisivi dell’esistenza dell’uomo dell’Esodo[18] è possibile ritrovarli riflessi, per analogia, in quelli vissuti nel Novecento dallo statista trentino.
Un primo periodo è quello in cui Mosè cresce alla corte del faraone: lui, un sopravvissuto, uno scampato alle acque, ha accesso alla cultura più fiorente del tempo, riceve un’educazione di qualità, impara la proverbiale sapienza degli Egiziani.
È la prima parte della vita degasperiana, che lo vede passare dalle sue valli a Vienna, dalla terra di una minoranza italiana al Parlamento dell’impero.
Un secondo periodo racconta come Mosè non si sia chiuso nella sua condizione privilegiata: la mette in campo con generosa disponibilità, animato da un profondo sentimento di solidarietà, che lo porta a lottare contro la sopraffazione e l’ingiustizia, fino a compromettersi. In realtà, Mosè viene respinto dai suoi, conosce la delusione e l’amarezza dello scacco; fugge nel deserto, dove diventa uno straniero, un pastore dedito al gregge.[19] Vive anni di solitudine e di silenzio, di necessità, forse anche di paura.
De Gasperi conosce la doppiezza di Mussolini, la cui falsità retorica aveva combattuto da giornalista come lui a Trento già nel 1909. Assiste alla vigliaccheria di molti. Vede partire in esilio su ordine della Santa Sede il suo mentore, don Luigi Sturzo; assiste alle violenze delle squadre fasciste; è abbandonato dalla maggior parte dei deputati cattolici che si allineano dietro il regime; cerca di fuggire, è arrestato, infine si rifugia nella Biblioteca vaticana con il poco che la Curia gli offre. Anni di attesa, in cui si fa mendicante di una parola, di un gesto di attenzione e di amicizia, di un lavoro, di fiducia, di qualcuno che ancora creda in lui.
Nella vita di Mosè, come in quella di De Gasperi, c’è una terza stagione. Nell’esperienza di un roveto ardente Mosè è visitato da Dio, che gli insegna a «togliersi i sandali», a non rinnegare la propria storia, ma a ripensarla fino a sentire che è «terra santa». Solo a quel punto è investito della missione di attraversare il deserto per condurre un’accozzaglia di schiavi a riconoscersi popolo (e forse è questa la vera Terra Promessa, condizione che conta più del possesso della terra…). La Legge promulgata dal Sinai era funzionale a questo disegno: uno strumento che aiutava a passare dalla condizione servile a quella della libertà per il servizio. Questo cammino avviene tra mille difficoltà, segnate dall’ingratitudine e dall’infedeltà del popolo, che, davanti agli stenti del viaggio, si rifugia in un rimpianto ricorrente per la precedente condizione, quando in Egitto era «attorno alla pentola delle cipolle».[20]
De Gasperi guida la Democrazia Cristiana e lo Stato fuori dalla sconfitta e dentro il riassetto delle potenze vincitrici, confidando nel proprio coraggio e nella fiducia degli italiani, anche di quelli che nel fascismo avevano creduto di trovare una soluzione. Fu inclusivo mai impulsivo. Tra il 1947 e il 1948, con le scelte decisive che compie, si attira contestazioni anche dentro il suo partito. Vince le elezioni del 1948 e cambia passo nella politica delle riforme. Restaura la solidità finanziaria dell’Italia. Regge l’urto della Guerra fredda e apre la strada ad un progetto europeo che è ancora in divenire. Di fronte alle continue crisi di governo della Quarta Repubblica francese e alle impazienze della sua coalizione politica capisce la necessità di rafforzare la divisione dei poteri per dare al governo maggiore stabilità interna e internazionale. Nel 1953 perde la battaglia per la riforma della legge elettorale che prevedeva un premio in seggi alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti e viene emarginato dal suo partito.
De Gasperi muore a 73 anni il 19 agosto del 1954, nella sua e nostra amata terra trentina. Ormai malato, è solo e scruta oltralpe: l’ultima amarezza la subisce proprio da Parigi che vota contro il trattato per la difesa europea. Sapeva che – per quanto ci si affanni e si lotti –, la fine ci incontra sempre impreparati e a metà di ogni progetto. Tracciò la strada della terra promessa di un’Italia pacifica e prospera, ma – appunto, come Mosè – la poté soltanto intravvedere.
Mosè – la guida, il legislatore, il profeta con cui «il Signore parlava faccia a faccia come uno parla con il proprio amico»,[21] non entrerà nella Terra Promessa, la scruterà soltanto da lontano, prima di morire in solitudine, lontano da quel popolo per il quale si era speso senza misura.
Uno dei maggiori teologi contemporanei, Dietrich Bonhoeffer, richiuso dai nazisti nel carcere di Berlino, aspettando la condanna spedisce ad un amico una poesia dedicata a La morte di Mosè. Si rispecchia negli occhi di questo profeta morente e scrive: «Mentre sprofondo, Dio, nella tua eternità, vedo il mio popolo camminare nella libertà».[22] Vale anche per De Gasperi.
Una terra da abitare
La profezia degasperiana non si limita, naturalmente, all’analogia con la figura di Mosè. Ha delle caratteristiche peculiari e memorabili. Basterebbe riprendere le sue pagine contro l’idealismo astratto della politica e contro le manipolazioni della sofferenza e della disperazione dei poveri. Con la medesima forza, anche all’interno del suo partito ha combattuto ogni forma di messianismo e ogni pulsione utopistica. Non amava le cosiddette terze vie: sapeva che cosa significhi operare dentro e non contro la storia. Era consapevole che il destino dell’Italia solo in minima parte è nelle mani dei suoi governanti. Conosceva bene, fin dai tempi in cui da giovane giornalista scriveva di politica estera, le dinamiche delle alleanze. Non le subiva come limitazioni, ma anzi le valutava come opportunità. Era davvero entrato nello spirito europeo.
Lo guidava un acuto senso della realtà e della fragilità umana. Sapeva che non c’era futuro per chi inganna le masse. Il suo antifascismo fu di carattere morale e fu radicale: lo definì «una pregiudiziale ricostruttiva», una scelta di campo senza ritorno. Il suo anticomunismo fu di carattere intellettuale e politico: considerava il comunismo un insulto all’intelligenza della storia e la rivoluzione bolscevica una barbarie nei confronti della dignità umana e della libertà. I princìpi cristiani che lo guidavano sono ben esposti in un discorso del 1948 sulle basi morali della democrazia, che trova i suoi fattori portanti nella libertà, nell’uguaglianza e nella fraternità. Non c’è democrazia senza l’unione profonda di queste tre dimensioni, alle quali De Gasperi aggiunge quello che considera l’elemento decisivo: «l’amore». Non l’amore sentimentale, ma quello per la polis, un amore pubblico. Era un tema antico a lui caro: già nel 1925, in un drammatico discorso all’ultimo congresso del Partito popolare, citando San Tommaso, aveva detto: «Noi vogliamo la pace e l’ordine, ma l’ordine che nasce dalla giustizia. Il timore non è ordine, ma un puro fatto materiale. Il vero ordine si ha solo se esso deriva dall’amore. È questo il significato più profondo della parola pace in senso cristiano ed è questo il precetto fondamentale che deve ispirare la politica a sensi di fraternità e giustizia».[23]
È De Gasperi stesso ad offrirci la chiave interpretativa di un amore per l’umanità che si trasforma in un dovere di democrazia: «Nei momenti più decisivi – scrive – quando l’elettore democratico è chiamato ad esercitare il diritto di voto, egli deve essere incorruttibile in confronto alle lusinghe dei demagoghi e dei ricatti dei potenti e quando agisce nella manifestazione collettiva deve vigilare perché la sua coscienza morale non venga sommersa dalla marea spesso istintiva e irrazionale della massa».[24]
Se la democrazia si riducesse alla certificazione di un esito elettorale, non avrebbe risorse per contrastare chi volesse impadronirsi del voto e manipolarlo.
Oggi ci manca il suo spirito profetico. Ci manca la fiducia che il futuro sia nelle nostre mani. Lamentiamo, piuttosto, la crisi della politica; una politica che – come forse anche la stessa religione – non riesce più a colmare una mancanza di speranza nel futuro e nella missione dell’uomo su questa terra. Ci si chiude nella propria cerchia, si cerca un capo a cui affidarsi, si fa di se stessi l’unico mondo. Fondamentalismi, leaderismi, narcisismi: sono segni di debolezza, se non di paura.
Sentiamo talvolta emergere un sentimento di nostalgia per l’epoca degasperiana, senza comprendere, in realtà, quanta sofferenza sia stata allora consumata e quanta follia ci sia nella tentazione di rifugiarsi nel passato. De Gasperi ci ammonisce a non guardare indietro. In un discorso del 9 ottobre 1949 pronuncia queste parole:
«In democrazia non bisogna scoraggiarsi: lo scoraggiamento è il pericolo principale delle democrazie. Non occorrono mezzi artificiosi, promesse mirabolanti, per infondere coraggio, questi sono mezzi degli assolutismi. Basta la coscienza profonda e la certezza di attuare il proprio proposito. La pazienza è la virtù dei riformatori; riformare vuol dire superare il passato e la pazienza è virtù dei forti, virtù di chi ha fede, di chi ha coscienza dei problemi e li segue con tutta l’attenzione».[25]
Di fronte alle sfide della rinascita democratica, temeva che il popolo italiano potesse non reggere. Il partito per lui non era un mito, il nuovo Principe, bensì uno strumento per tenere unite le comunità e soprattutto per motivarle. Ne scelse il nome per poter dimostrare che, accanto ad altre forme di democrazia (liberale, socialista, comunista, azionista, umanista), c’era anche una forma cristiana. Si trattava di stare al tavolo del futuro insieme ad altre tradizioni democratiche, senza complessi di inferiorità.
Che cosa farebbe oggi De Gasperi? Che cosa direbbe? Quale sarebbe la sua parte? Non è più il suo tempo, ma la sua figura si staglia limpida e forte all’orizzonte. Se fosse rappresentato in un ritratto del Cinquecento sarebbe circondato da molti doni allegorici: l’albero della libertà, la colomba della pace, la bilancia della giustizia, la sfera dell’intelligenza, lo specchio della prudenza, il mercato della comunità e l’unguento per i malati. Con sullo sfondo l’occhio di luce della Provvidenza.
Oggi ci direbbe che non è con il cinismo che potremo abitare questo nostro tempo. Non è con la critica e il lamento che costruiremo un mondo migliore. È semmai con la profezia che riusciremo a risvegliare le coscienze e coinvolgerle nella dedizione a una causa epocale, nell’ambizione di tendere insieme a una terra promessa, a una patria europea. Per questa profezia degasperiana rimane ancora la domanda e lo spazio.

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