Davvero lo nominai invano, di Sergio Visconti

Distinguere per dividere: sembra essere questa la cifra culturale di questo tempo di nazionalismi tendenzialmente o nascostamente antidemocratici che predicano il verbo dell’identità quale mantra che serve a ipnotizzare popoli interi per gettarli tra le braccia di elites politiche che in realtà sembrano assomigliare a vere e proprie oligarchie. Processi di tal genere emergono un po’ dappertutto e sono il segno, secondo la lettura di molti commentatori che sanno di politica, sociologia e storia, di una normalità della storia umana, visto che nel mondo i regimi democratici, le Democrazie sono una sorta di accidente storico che ha persino una collocazione geografica definita: l’Occidente. Ma se l’Occidente è in crisi culturale è assolutamente normale, ovvio che la cultura democratica – quella che pur sapendo distingue si impegna ad unire e non a separare – sia attraversata da una crisi di senso veramente importante. Il tema “visionario” dei Padri fondatori dell’Unione Europea poggiava proprio sulla capacità di mettere insieme Stati e Nazioni che, a motivo di una esasperata ricerca di identità nazionale, si erano consumati in uno scontro armato che aveva infiammato e cambiato l’intero mondo. Unire i distinti: non separare. Perché nella diversità risiedono le risorse originali da spendere per rendere feconda l’unità, specialmente quando risulta fondata sui principi della democrazia. Ora, l’Europa rappresenta ancora una volta un banco di prova decisivo per le sorti del mondo intero. La sua unione, fondata sulla forza della democrazia che sa unire o tende ad unire i distinti, verrà messa alla prova nella prossima tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. E già gli schieramenti opposti prendono posizione per costruire alleanze. Con un certo slancio e, si potrebbe dire, anche con una certa efficacia il “sovranismo” (termine utilizzato spesso per mascherare analogie ideologiche con il fascismo) sembra essere più attrezzato e motivato nell’azione politica all’interno dell’Unione. Incontri ufficiali e, probabilmente, non ufficiali iniziano a delineare un quadro di alleanze che non può non preoccupare. Soprattutto quando il dire politico viene farcito di rimandi alla religione per costruire o consolidare alleanze con settori della gerarchia ecclesiastica, di bellicismo volontaristico per affermare la propria identità culturale, di visioni del mondo nelle quali difetta con evidenza il tema della solidarietà per non dire della fraternità. Questa cultura “sovranista” che si oppone in maniera irriducibile a quella democratica (certamente a quella forma di democrazia che abbiamo conosciuto e visto diffondersi nel mondo dopo il Secondo Conflitto Mondiale) non ha altro fine che la consumazione di se stessa. Perché è culturalmente votata alla contrapposizione, alla separazione, alla divisione finalizzate all’affermazione della propria identità e dei propri interessi  contro quelli degli altri. Tuttavia, prima che questo avvenga, è possibile ipotizzare una convergenza di interesse tra i “sovranismi” oggi presenti nel mondo: l’annichilimento delle democrazie. E forse anche della laicità, intesa come sana separazione tra “trono e altare”, tra “ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio” come si dice in Occidente o, meglio ancora, nella “Cristianità” sparsa nel mondo. La laicità! Questo valore così tanto agognato dai giovani iraniani, soprattutto dalle giovani: anche da quelli e quelle che non rigettano la religione, ma desiderano vivere laicamente in libertà. Ora, il Dio dei sovranisti europei, che altri non è che il Dio di Gesù Cristo, è il Dio che rifiuta a Mosè di consegnare il Suo Nome: Egli è Colui che è. Non può, Dio, essere catturato dalla furbizia umana: non si consegna Dio ai sotterfugi messi in atto per possederlo. Eppure è il Dio che si consegna totalmente all’umanità consumando se stesso, fatto uomo nel Figlio, sul legno della croce. Si consegna a chi sa capire la “stoltezza della croce”; a chi sa aprire il cuore al Suo mistero d’amore; a chi non rimane turbato di fronte alla Verità che si presenta disarmata di fronte al potere di Cesare; a chi sa riporre la spada nel fodero perché sa che Dio si difende da solo con le armi e gli strumenti che sceglie di utilizzare mettendo da parte “miriadi e miriadi di legioni di angeli, pronte ad intervenire”. Il dio dei sovranisti, poiché questi presumono di conoscerne il nome, può, dunque, essere invocato e utilizzato per tracciare confini, guidare battaglie e guerre, garantire identità, orientare le politiche economiche e sociali, ma si tratta di una brutta copia del Dio di Gesù Cristo. Si tratta, per dire con precisione, di un idolo. In Ungheria forse più che invocato è stato evocato un dio, come si fa per diletto o noia in certi ambienti salottieri con i fantasmi. Ed è apparso il dio che si desidera avere perché garantisce la propria visione ideologica e le proprie scelte politiche. Veramente è stato un dio invocato invano perché da un idolo non può tornare alcuna risposta se non che quella che si desidera ricevere. E il sovranismo le risposte se le è già date, consapevole di sé tranne del fatto di continuare a nominare invano il nome di Dio.

[docente di scuola superiore, Giardini Naxos, Messina]

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