Nella relazione annuale presentata lo scorso 31 maggio il governatore della Banca d’Italia è tornato su temi che il discorso pubblico aveva da un po’ di tempo accantonato, perché altre questioni apparivano più urgenti o semplicemente perché scomodi. Tra questi merita attenzione la ripresa del filo che collega i fenomeni migratori ad alcune grandi sfide del nostro tempo, come quella della sostenibilità del sistema di welfare e più in generale dello stato complessivo di salute della nostra economia, che, come avverte Fabio Panetta, risulta fortemente minacciato dal calo demografico (secondo l’Istat, il calo della popolazione in età lavorativa può comportare, da qui al 2040, una contrazione del Pil del 13%).
Che la vera minaccia sia costituita dalla crisi demografica e non dall’immigrazione costituisce per la verità un dato da tempo acquisito negli studi sullo sviluppo economico dei territori, da sempre abituati a misurare i flussi di popolazione e i loro effetti sulla crescita del benessere delle diverse aree geografiche. Si pensi al fenomeno che ha portato, nel secondo dopoguerra, alla crescita economica e demografica del nord del Paese, consolidando uno scarto di ricchezza tra due Italie che non si riesce più a colmare ed è destinato ad approfondirsi. Ma la conferma dell’importanza della demografia per la crescita dell’economia viene anche da vicende storiche più risalenti, come quelle che negli ultimi due secoli hanno investito il cosiddetto “nuovo mondo” (si pensi, quali testimonianze della leva migratoria per l’espansione dell’economia americana, alle differenze tra Europa e America nell’acquisizione della cittadinanza).
Il nesso demografia-economia-immigrazione è stato fino ad alcuni anni fa oggetto di grande attenzione da parte di chi dedica le proprie energie alle strategie di ripopolamento delle aree interne e in generale di quelle aree marginali che sono attraversate da processi di abbandono. Un’attenzione che si è tradotta anche in buone pratiche, capaci di testimoniare come il destino demografico dei territori possa prendere una direzione diversa se si interviene con politiche in grado di contrastare il de-popolamento. Gli esempi sono numerosi e si spargono dal sud al nord del Paese, se si pensa alle politiche di insediamento dei richiedenti asilo come perno per il rilancio delle terre alte italiane, sia alpine (Dematteis, Di Gioia, Membretti 2017) che appenniniche (Atlante dell’Appennino 2018) o i programmi di integrazione che hanno accompagnato alcune strategie di rilancio di aree interne (Giovannetti 2017). In questa logica si è mosso il «Manifesto per una rete dei piccoli comuni del welcome», che nasce sulla scia dell’insegnamento papale e si propone, per fare sintesi tra solidarietà ecologica ed umana, una vera e propria trasformazione del welfare locale, coinvolgendo anche realtà come Anci e Uncem.
Certo il tema non è banale, dato che la popolazione migrante è indotta a concentrarsi nelle aree dove maggiori sono le occasioni di lavoro, il che rende difficile scalzare la naturale attrattività dei territori più urbanizzati dove si concentrano storicamente gli insediamenti produttivi (Ambrosini 2011). Allo stesso tempo, affrontare le questioni demografiche (anche) attraverso la leva dell’immigrazione implica fare in conti sul serio con il tema – pretermesso dal dibattito pubblico più recente – dell’integrazione dei migranti, integrazione che costituisce la precondizione per approdare ad una società effettivamente inclusiva. Ma quel che rileva qui mettere in luce, e che contrassegna in termini innovativi le riflessioni proposte quest’anno dalla Banca d’Italia (da considerare con la massima attenzione proprio in virtù dell’autorevolezza della fonte da cui provengono) è l’inversione di prospettiva con cui guardare al fenomeno migratorio. Occorre, in sintesi, superare quella narrazione – ormai usurata – che impedisce di vedere l’immigrazione come una risorsa (economica, demografica e culturale) e conduce ad affrontare con un approccio perennemente emergenziale quello che invece va governato con uno sguardo di lungo periodo proprio perché può trasformarsi in un fenomeno salvifico. D’altra parte, i libri di storia insegnano che i processi di sviluppo seguono itinerari complessi, dove la rinascita di popoli e luoghi viene resa possibile da ripopolamenti, trasferimenti, migrazioni e mescolanze che a volte invertono in modo anche inaspettato il destino dei territori, condannati comunque a stagioni buie quando la demografia non riesce ad alimentare le aspettative che lo stesso sistema economico ha ingenerato.
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