Cosa serve per essere democrazie all’altezza, di Mauro Magatti

Dopo la caduta di Berlino e la creazione “dell’ordine liberale globale”, il mondo intero sembrò virare verso la democrazia. A trentacinque anni di distanza la situazione è molto cambiata. Al punto che in tanti si chiedono se il tempo della democrazia sia finito. Secondo l’Economist Intelligence Unit, circa il 45% della popolazione mondiale vive in una democrazia, anche se meno del 10% in una “piena democrazia”. Al contrario, il 40% vive in un regime autoritario e il restante 15% in una situazione ibrida. Anche se, sottolinea il rapporto, la tendenza negli ultimi anni vede un arretramento della democrazia. Ci sono cause esterne e cause interne che spiegano queste difficoltà. Sul fronte interno si può parlare della convergenza di tre fattori.
Il primo riguarda le crescenti disuguaglianze che mettono in discussione la stessa legittimazione delle istituzioni democratiche. Tema attualissimo anche in Italia dove, come ha appena fatto sapere l’Istat, il 30% della popolazione arranca. Mentre la ricchezza continua a concentrarsi nelle mani di pochi.
Il secondo fattore di crisi riguarda la degenerazione della sfera pubblica aggravatasi con l’avvento dei social. Nel mondo digitale la polarizzazione è la regola. Tutti parlano e nessuno ascolta. E, cosa più grave, le democrazie sono ormai da anni preda di una spirale nichilista che le rende incapaci di costruire: difficile credere in qualcosa. E ancora di più, credere insieme.
Un terzo fattore concerne il nodo dell’efficienza delle istituzioni. Il processo decisionale democratico appare farraginoso e in cronica difficoltà. E con l’avanzare dell’intelligenza artificiale, i dubbi che i parlamenti siano ancora in grado di decidere si fa velocemente strada. La crisi del modello democratico diventa evidente nel suo vertice mondiale: l’inedita alleanza tra il populista Trump e i grandi magnati della tecnologia suscita diffuse preoccupazioni.
Sul piano esterno, le difficolta si palesano nel rapido cambiamento dei rapporti internazionali. Con l’attacco all’Ucraina, Putin non ha solo riaffermato il ruolo politico della Russia, ma ha creato un contesto in cui le autocrazie sono diventate più sfacciate e aggressive. Come si vede in questi giorni in Turchia con il clamoroso arresto del principale oppositore del regime di Erdogan.
Il consenso che sembrava essersi consolidato intorno alla desiderabilità del modello democratico oggi non c’è più. Anzi, i regimi autocratici pretendono di avere le risposte alla crisi della democrazia: in tema di sicurezza, uguaglianza, identità, efficienza.
In questa situazione, la rappresentazione di un mondo diviso tra democrazia e autocrazie guadagna terreno. Anche tra le élite del mondo libero. Senza rendersi conto che una tale visione finisce per avvantaggiare i dittatori che si trovano legittimati proprio dalle difficolta interne delle democrazie. Tutto ciò significa che, negli anni a venire, le democrazie dovranno dimostrare di essere all’altezza del nuovo tempo storico. Nulla può essere dato per scontato. E tutto ciò concretamente richiede un salto di qualità su almeno tre temi cruciali.
In primo luogo, serve capacità di innovazione istituzionale. Mi limito a osservare che una delle istituzioni fondamentali della democrazia, il Parlamento, (cioè il luogo dove si parla, si discute per arrivare a una deliberazione) va ripensato al tempo dell’intelligenza artificiale. In secondo luogo, serve tornare a investire sulla partecipazione democratica che al tempo del digitale significa intelligenza sociale diffusa. Se le democrazie vogliono scongiurare uno scenario da “fattoria degli animali” alla Orwell, devono investire su educazione, cultura, corresponsabilità. In un quadro di giustizia sociale e solidarietà.
In terzo luogo, le democrazie sono chiamate a distinguere pluralismo da nichilismo. Non c’è vita democratica in una condizione di distruzione di ogni valore. Di diritti senza doveri. Ma affrontare tale questione sollecita a ripensare il nostro modello di sviluppo. Oltre il mero consumerismo individualista. Economia e politica si tengono: non è possibile riformare la seconda senza ripensare la prima. L’ultimo aspetto riguarda la governance internazionale. La crisi verticale dell’Onu e delle agenzie multilaterali è un problema serissimo, che va affrontato nel quadro della costruzione di un nuovo ordine globale, basato sui principi fondanti dello stato di diritto, del dilago, della cooperazione, della pace. Passata la stagione in cui si è pensato di esportare la democrazia, impegniamoci a essere parte attiva nella costruzione di istituzioni globali compatibili con i principi democratici.

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