Silvio Berlusconi è morto. L’uomo con il sole in tasca, il caimano, il cavaliere, l’unto del signore, il presidente operaio, il cantante da crociera, sua emittenza e la folla intera di personaggi che egli stesso si era cucito addosso ora appartengono alla storia, non più alla cronaca. E forse solo adesso ogni cosa potrà essere finalmente dipanata più serenamente dai suoi avversari, ma anche da chi gli fu vicino in ciascuna delle mille vite che visse, o raccontò d’aver vissuto. E, per provare a farlo, conviene cominciare proprio da ciò che nessuno potrà negargli: Berlusconi ha profondamente cambiato questo paese, prima come imprenditore, poi come politico.
La sua stessa entrata in scena come politico avvenne come non si era mai visto fino ad allora: con una videocassetta consegnata alle redazioni dei telegiornali. Conteneva il famoso discorso della “discesa in campo”. “L’Italia è il paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti”, disse l’allora capo della Fininvest rivolgendosi direttamente ai telespettatori. Stava promettendo un “nuovo miracolo italiano”. Era il 26 gennaio 1994. Da quel giorno l’Italia non fu più la stessa.
Se Berlusconi ha cambiato il paese, va detto però che lo ha fatto senza essersi mai neppure avvicinato a realizzare la rivoluzione liberale, e dunque l’obiettivo per cui ha speso almeno metà della propria vita, quella che ha vissuto da politico. Infatti, “come nel 1994, continuo a credere che una rivoluzione liberale sia necessaria e urgente”, scriveva ancora il 22 agosto 2021 in un intervento pubblicato sul Giornale. Ma questa aspirazione, e ogni tentativo di darne una concreta realizzazione, per paradosso sono stati invece la rampa di lancio sulla quale ogni populismo ha potuto arrampicarsi per colonizzare ogni spazio della vita pubblica italiana.
Questo è potuto accadere soprattutto perché a imporre al proprio progetto politico una connotazione di natura populista fu lo stesso Berlusconi, fin dall’inizio della sua avventura politica. Alla base del suo agire c’era infatti l’idea che vi fosse un rapporto diretto tra lo stare in carica del governo e la volontà del popolo. Lo affermò esplicitamente già nel 1994 nel discorso che tenne alla camera poco prima che il suo primo governo cadesse per il venir meno dell’appoggio della Lega Nord di Umberto Bossi. Per la verità, questa teoria non trova riscontro ancora oggi nella Costituzione, la quale prevede invece che il popolo eserciti la sovranità “nelle forme e nei limiti” previsti dalla costituzione stessa, che sono quelli propri delle democrazie parlamentari. E tuttavia con Berlusconi l’idea di una relazione diretta tra leader e popolo si afferma decisamente. E con ciò cambia la storia politica italiana, chiudendo un cerchio che si era aperto con la stagione referendaria dei primi anni novanta del secolo scorso, quella che portò all’introduzione del sistema elettorale uninominale maggioritario, e che a sua volta era figlia della crisi del sistema politico italiano manifestatasi drammaticamente a cominciare dalla fine degli anni ottanta.
Erano gli anni nei quali il paese, scosso dalle stragi mafiose del 1992 e del 1993 e dalle inchieste giudiziarie della procura di Milano sulla corruzione, provava a fare i conti con il novecento. I vecchi partiti popolari vennero spazzati via. Ed è allora che Berlusconi inventa e costruisce Forza Italia, un partito politico a propria immagine e somiglianza, si presenta alle elezioni e le vince. Tra il 18 e il 20 maggio 1994 ottiene la fiducia di senato e camera. Il suo primo governo durò in carica soltanto pochi mesi, ma nei successivi vent’anni Berlusconi di governi ne guidò altri tre, e lo fece come leader indiscusso di una destra della quale è riconosciuto fondatore.
Mille domande
Per lui sono anni trionfali. Sono per esempio gli anni del vertice Nato di Pratica di Mare, quando – era il 2002 – l’alleanza atlantica aprì le proprie porte al paese erede dell’Unione Sovietica, e di cui lo stesso Berlusconi negli anni seguenti parlò spesso per accreditarsi come il leader che chiuse la guerra fredda. E sono anche gli anni delle sfide con Romano Prodi per il governo del paese. Berlusconi vince e perde, ma anche da sconfitto riesce sempre a restare al centro della scena.
Sono però anche gli anni del G8 di Genova del 2001, e di una repressione poliziesca della protesta sociale di una violenza raccapricciante, tale da far parlare di una sospensione della democrazia. Berlusconi era capo del governo e “quel rovesciamento momentaneo dei codici democratici”, scrisse nel 2013 Lucie Geffroy su Le Monde, “ha modificato per sempre il rapporto degli italiani con la vita politica e l’impegno sociale”.
In quegli anni Berlusconi comincia anche a essere inseguito sempre più insistentemente da mille domande, a partire da quelle sulla sua iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli fino a quelle su una parte dei fondi sui quali aveva costruito la sua fortuna di imprenditore, alimentate in seguito anche dalla condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa di Marcello Dell’Utri, tra i fondatori di Forza Italia e stretto collaboratore anche del Berlusconi imprenditore.
Quello sulla giustizia, peraltro, è tra i capitoli più corposi della storia di Berlusconi. Tra accuse di corruzione, concussione, prostituzione minorile, frode fiscale, corruzione in atti giudiziari, concorso in strage, le inchieste giudiziarie che lo hanno visto protagonista sono così numerose che lui stesso ha più volte raccontato di aver trascorso per anni i propri sabati in compagnia degli avvocati per studiare le carte processuali. L’unica condanna definitiva la rimediò nel 2013 quando venne condannato a quattro anni per una frode fiscale legata alla compravendita di diritti televisivi.
Per il resto, sono stati molti i proscioglimenti, arrivati però anche grazie alle cosiddette leggi ad personam, norme che Berlusconi, come capo del governo e della maggioranza politica, fece votare dal parlamento per l’occasione, come quelle che mettevano al riparo le alte cariche dello stato dalle indagini della magistratura, o che modificavano le regole sulla prescrizione. Era una cosa che non si era mai vista nella storia dell’Italia repubblicana. Si aprì uno scontro ferocissimo con le opposizioni che spaccò il paese fino alla caduta dell’ultimo governo guidato da Berlusconi nel 2011. E anche da questo punto di vista la presenza di Berlusconi sulla scena politica ha segnato un punto di non ritorno.
Negli anni della prima repubblica infatti gli italiani si dividevano tra culture politiche concorrenti, e quindi sulla base di una idea di società. Nella cosiddetta seconda repubblica, aperta di fatto con la vittoria di Forza Italia alle elezioni politiche del 1994, cambia tutto. Al posto dei vecchi partiti si affermano organizzazioni costruite sempre di più attorno alla figura di un leader e sempre meno su un’idea di società. Il potere diventa sempre più un fatto personale, e si innesca un processo di presidenzializzazione di fatto – e quindi a regole costituzionali invariate – della democrazia parlamentare. E mentre il parlamento finisce per occupare una posizione sempre più residuale a vantaggio del governo, gli italiani cominciano a dividersi seguendo i leader e non più le idee. E lo fanno in modo quasi fideistico. Lo fanno insomma iniziando a tifare.
Una rivoluzione culturale
Berlusconi è al centro di questo meccanismo. Lo conosce e sa utilizzarlo, e soprattutto possiede aziende nel settore editoriale e televisivo, tra le più importanti in Italia. Le forze politiche di centrosinistra sono invece sempre meno capaci di un qualsiasi genere di elaborazione politica, e finiscono per connotarsi per il proprio antiberlusconismo, senza avere niente altro o quasi da dire al proprio elettorato. E ciò accade, paradossalmente, proprio mentre quelle stesse forze si conformano sempre più al modello imposto da Berlusconi. Matteo Renzi o Beppe Grillo, solo per citarne due, sono evidentemente epigoni di Berlusconi nel modo di comunicare ma anche nel modo di intendere il potere. Lo dimostra anche un certo anti parlamentarsimo che accomuna molti leader degli ultimi venticinque anni e che si manifesta per esempio nell’insofferenza per la libertà dei singoli parlamentari garantita dal divieto di vincolo di mandato che infatti in questi ultimi tre decenni in molti hanno tentato di cancellare.
Ma alla lunga anche per Berlusconi la conflittualità come metodo politico divenne logorante. L’inizio della fine politica va rintracciato nel 2009. Il 25 aprile di quell’anno Berlusconi è a Onna, paese devastato dal terremoto che una ventina di giorni prima aveva colpito la zona dell’Aquila. Era la prima volta che partecipava alle celebrazioni del 25 aprile e il discorso che tenne colse molti di sorpresa per alcuni passaggi, come quello sulla resistenza “valore fondante della nazione”. Pareva potersi aprire una fase politica nuova. Ma di lì a qualche giorno Berlusconi venne pizzicato dai giornali a Casoria, nel napoletano, alla festa di una ragazza.
Lei si chiamava Noemi Letizia, aveva appena 18 anni e in quel momento nessuno ancora sapeva chi fosse né in che rapporti fosse con Berlusconi. Si seppe però ben presto che lo chiamava confidenzialmente “papi”. “Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni”, dichiarò nei giorni seguenti Veronica Lario, all’epoca ancora moglie di Berlusconi. Quindi aggiunse: “Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere: figure di vergini che si offrono al drago”.
È insomma proprio in quelle poche ore che separano Onna da Casoria che si materializza una crepa irreparabile nel potere berlusconiano. Il Casoriagate infatti fu solo l’inizio. Poi si ebbe notizia di alcune cene organizzate nelle residenze del presidente del consiglio. “Cene eleganti” si disse, ma sono passate alle cronache per il cosiddetto bunga bunga a cui partecipavano numerose ragazze. Tra queste, c’era anche Karima el Mahroug, nota come “Ruby rubacuori”. All’epoca aveva soltanto 17 anni e, per provare a salvare la situazione, si provò a farla passare per la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak.
Il governo, il quarto e ultimo guidato da un Berlusconi ormai molto logorato anche sul piano dell’immagine, cadde nel novembre del 2011 al culmine della crisi che in quel momento si manifestava con l’impennata dello spread tra i btp italiani e i bund tedeschi. Berlusconi si recò al Quirinale nella serata del 12 novembre per rimettere il mandato nelle mani del capo dello stato. Quella sera moltissime persone festeggiarono la notizia nelle strade del centro di Roma.
Se come politico Berlusconi ha cambiato la storia di questo paese, questo è stato possibile soprattutto per ciò che aveva costruito nei vent’anni precedenti il 1994, e quindi ben prima di fondare Forza Italia. Sono gli anni di Milano 2, della presidenza del Milan, dell’invenzione della televisione commerciale, della costruzione di un gruppo editoriale del quale entra a far parte anche Mondadori, al termine di una lunga battaglia per il controllo della società – la cosiddetta “guerra di Segrate” – contro Carlo De Benedetti. Con la forza pervasiva del suo impero mediatico, e in particolare delle sue televisioni, Berlusconi realizzò proprio in quegli anni le condizioni che accompagnarono una sorta di mutazione antropologica che negli anni ottanta del novecento ha fatto degli italiani ciò che sono ancora oggi.
Fu quasi una rivoluzione culturale. E proprio questa rivoluzione culturale fu la premessa programmatica di ciò che accadde dopo. Quando scese in campo come politico, infatti, Berlusconi aveva di fatto già vinto da anni: in quel momento i suoi avversari non ne erano ancora consapevoli ma già da tempo ragionavano secondo categorie che lo stesso Berlusconi aveva imposto alla politica, e che tutt’ora resistono.
Oggi al potere ci sono proprio i post fascisti che Berlusconi sdoganò
Lo testimoniano, per esempio, il ruolo nuovo e pervasivo che la comunicazione ha avuto per tutti a partire da quel momento, la cura maniacale per l’immagine, e una certa piega pop che riuscì a imporre al discorso pubblico, anche ricorrendo a un armamentario schiettamente populista o a slogan che presto sono entrati nel linguaggio comune. È il caso del famoso “mi consenta” degli inizi, o dell’altrettanto noto “meno tasse per tutti”. Ed è il caso anche degli espedienti elettorali come il famoso contratto con gli italiani firmato in diretta televisiva ospite di Bruno Vespa, o la promessa di un milione di posti di lavoro, e poi di abolire l’Imu o anche di distribuire dentiere gratis. Nel 2010, nel corso di un comizio elettorale a piazza San Giovanni a Roma, arrivò a promettere perfino la cura per il cancro.
Anche da ciò emerge insomma la consequenzialità tra le due vite di Berlusconi, quella da imprenditore e quella da politico. Ma c’è anche un momento in cui quelle due vite coesistono. Il 23 novembre 1993 Berlusconi è a Bologna per inaugurare un centro commerciale. Gli viene fatta una domanda sulla campagna elettorale che si sta svolgendo a Roma tra Francesco Rutelli e l’allora segretario del Movimento sociale italiano Gianfranco Fini. Ebbene, “se dovessi votare il 5 dicembre per il sindaco di Roma non avrei dubbi”, risponde Berlusconi. “Gianfranco Fini, che è un esponente di quelle forze moderate, di quella Italia che lavora, che produce, che devono riunirsi in una aggregazione che si contrapponga decisamente al rassemblement delle sinistre”. In queste parole c’è già quasi tutto. C’è soprattutto l’imprenditore che inventa una destra che in Italia, nella forma che poi prenderà per mano sua, non c’era mai stata.
Oggi al potere ci sono proprio i post fascisti che Berlusconi sdoganò parlando in quel centro commerciale. Sono guidati da Giorgia Meloni che in quegli anni aveva appena iniziato a interessarsi di politica. Ed è proprio a lei che sta toccando il compito di chiudere la lunga stagione del berlusconismo, obiettivo sempre fallito dal centrosinistra che, anzi, per trent’anni di Berlusconi è sempre stato culturalmente subalterno.
Meloni rappresenta infatti una destra molto diversa da quella tendenzialmente liberale che per decenni ha trovato il proprio leader in Berlusconi. In comune con Berlusconi c’è l’idea che il potere esista come rapporto diretto tra leader e popolo, senza mediazioni possibili. Ma niente più di questo. Quella guidata da Meloni è infatti una destra molto più ideologica del centrodestra berlusconiano. È una destra che trova una radice salda nel novecento, con il quale deve però ancora fare i conti, ed è per questo che guarda alla Costituzione come un testo sul quale intervenire radicalmente a partire dai suoi presupposti teorici, con una strisciante revisione già in atto del rapporto con l’antifascismo che di quel testo è la matrice teorica. E questa revisione – la neutralizzazione di quel rapporto, si dovrebbe dire – è a sua volta la premessa teorica necessaria per avere mano libera per poi piegare la nostra repubblica parlamentare in senso presidenziale.
Insomma, quella che si è aperta con le ultime elezioni politiche pare davvero una stagione nuova, forse una terza repubblica, che per dispiegarsi deve chiudere politicamente quella precedente, ovvero quella al centro della quale c’era proprio Berlusconi. Lui questo lo aveva capito bene, e stava combattendo come sempre per non essere mandato in archivio. Ma questa volta non ha avuto tempo a sufficienza. E forse molti italiani ora si risveglieranno antiberlusconiani, come accadde con Mussolini un attimo dopo la caduta. E lo stesso con Bettino Craxi o Renzi, non appena persero il potere.
Negli ultimi anni Berlusconi era stato anche rivalutato dai suoi avversari. Senza molte idee su come affrontare il futuro, e spaventati prima dal populismo sovranista di Salvini e poi dal nazionalismo di Meloni, molti leader del centrosinistra avevano iniziato a guardare al vecchio leader con una certa nostalgia. Forse anche perché sono tutti culturalmente e politicamente figli suoi. Ed è forse questa la vittoria più grande per il vecchio imprenditore, fattosi politico.
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